Racconti umoristici

La chiave d’argento. cap. VII

La chiave d’argento.

Presero un bicchiere di rum e si accomodarono in salotto mentre il fanciullo ammirava le belle decorazioni della casa e rideva felice (e per nulla intimorito) ai mille scherzetti che le ombre della casa erano state preparate a tirare agli ospiti di casa per la notte.

Randolph, spiegò la maman, era arrivato da lei alcuni mesi fa e lei lo aveva ospitato volentieri a casa sua amando moltissimo i bambini; ma Randolph non era un bambino, o almeno non più da tempo; era un viaggiatore, un onironauta, un camminatore dei sogni, un viaggiatore dello spazio e del tempo; un romantico ed un grande studioso di magia. La sua forma reale era quella di un uomo che aveva da tempo passato la ventina e con essa gli spensierati e dorati anni dell’infanzia, anni ai quali Randolph non era mai riuscito a rinunciare, rifiutandosi di abbandonarli alle spire del tempo lasciando per sempre i magnifici, imponenti sogni e le forti, corroboranti emozioni che provava in quegli anni felici.

Era così che l’uomo Carter si era appassionato alla magia; aveva viaggiato in Europa e nella lontana India scoprendo segreti esoterici nascosti da millenni, aveva incontrato maghi e stregoni potenti, guaritori e veggenti, entrato a far parte di potenti logge e culti ed era giunto ad una conoscenza superiore, ma non era mai abbastanza.

Carter aveva sentito, in giovane età, che la magia apriva l’uomo ad un mondo più vasto ed era quello il mondo che aveva abbandonato da bambino; i suoi sogni non erano solo tali, erano in tutto e per tutto viaggi, viaggi fantastici nella lontana e sconosciuta Kadath oltre le stelle, ed era così che aveva visitato e rimirato le antiche e splendenti cupole di Calcedonia, riposato sulle sponde del verde fiume Skai e visitato le profonde giungle dell’Ulthar. E voleva tornarci.

Furono molti i posti ultraterreni che riuscì a visitare, ma nulla di paragonabile a ciò che si era lasciato alle spalle e Carter viveva nello sconforto più profondo.

Però, quando trovò la chiave d’argento tutto cambiò.

Il prezioso artefatto gli era stato lasciato dal nonno ma fu solo quando riuscì a maneggiare la magia che ne capì il reale valore, il reale immenso potere; la chiave apriva porte nascoste alla realtà che andavano oltre la comprensione umana, la comprensione di chi non si chiamasse Carter e vivesse ancorato alle abitudini e alle ferree regole sociali e terrestri, insomma, di chi non fosse un tenace sognatore.

Era così che era finito lì, e nello stesso modo poteva tornare indietro e portare Lemuel, Jeremy e Teresa con sé.

Era un bambino così garbato, e aveva bisogno di un adulto per spiegare i complessi motivi per cui la sua magia funzionava, si era affezionato a Rosalì e New Orleanse e gli piaceva molto, era così diversa dalla vecchia Boston di casa sua nel 1800 ma sarebbe stato molto felice di avere compagnia e riportarli nella loro epoca, però doveva metterli in guardia; al loro arrivo non avrebbero trovato quel Carter al loro fianco.

Più di così il bambino non era in grado di spiegare e chiese soltanto loro di non spaventarsi al momento opportuno, ma adesso chiedeva se poteva partecipare alla festa di Halloween; dopotutto, commento Rosalì abbracciandolo e sorridendo a Lemuel, era un bimbo.

Così i nostri festeggiarono a sazietà, la casa venne assediata da monelli in costume che ricevettero caramelle e dolcetti fatti in casa da Teresa, Lemuel fece una splendida figura con la sua automobile addobbata in onore di Papa Legba ornata di teschi e fumogeni colorati alla sfilata per le strade, J.J.aveva giocato in largo anticipo con il suo costume dopo aver conosciuto l’esistenza dell’acquisto per posta e si era presentato alla festa con i vestiti da palcoscenico originali di un certo Elvis, star del rock degli anni ’50 di cui l’appassionato musicista si era infervorato dopo averne ascoltato i dischi con i suoi amici musicisti e protetti nella Ogan Sih Wedo House.

Teresa aveva optato per un costume selvatico e molto aggressivo con cui spaventò più di un monello, si era vestita da Morrigan, con le pitture di guerra in viso e lo splendente spadone.

Teresa volle fare un regalo ai suoi amici, un regalo che preparava da giorni; ovviamente non aveva dimenticato le sue tradizioni celtiche ed aveva allestito un piccolo tempio sotto il bel gazebo del giardino Balckmore donando fiori e frutti alle divinità che in Irlanda si festeggiavano nel giorno dei morti; ornò il roseto con nastri rossi per tenere lontani i demoni e i sidhe dispettosi e, radunati i bambini di Lemuel e gli amici, fece un rituale per richiamare i loro morti.

Così Jeremy rivide l’amata nonnina che lo aveva inviato sulla via del voodoo, gli orfani rividero i genitori e gli zii, Lemeul rivide suo padre.

Ma Lemuel non era contento. Ovviamente passò con il riverito e amato genitore tutto il tempo concessogli, ma non glie era piaciuto che Teresa avesse fatto in casa sua quello che lui si rifiutava di fare per i suoi fedeli. Lemuel non aveva mai chiesto a Baron Samedì di aprire i cancelli per far uscire i morti a conversare con i loro cari, e odiava l’idea che Morrigan lo avesse scavalcato.

Il fatto era che l’ingenuità di Teresa l’aveva spinta a quella decisione, una decisione che doveva essere solo una cosa bella e Morrigan stessa si era trovata d’accordo.

Sì perché Teresa era riuscita a parlare con quella parte della sua anima con l’aiuto di un complicato rituale e di uno specchio.

Teresa aveva bisogno di sapere.

Che cosa aveva fatto Mad Sweeney? Era saggio tenerselo accanto? Ci si poteva fidare di lui? Ma sopratutto, aveva senso continuare a punire il suo povero, dolce amico?

Morrigan odiava ricordare, ma Sweeney aveva commesso il più grave dei tradimenti; il Dio del sole l’aveva uccisa. Decapitata.

Teresa si raggelò.

Molti secoli erano passati, tempi antichi in cui l’uomo non era che un barbaro urlante assetato del sangue dei suoi nemici, Morrigan stava difendendo accanto al suo Re le terre d’Irlanda dagli invasori sassoni; era una guerra epica, così pregna di gloria, onore e sangue; quando il leprecauno aveva messo fine alla sua gioia lì, sul campo di battaglia. Il suo amato Re la aveva tradita, mozzandole la testa, e con lei anche la guerra era finita.

Quindi sì, suo marito meritava quel castigo, e lo avrebbe tormentato per sempre.

Quando la Morrigan svanì nello specchio Teresa pianse.

Con i ragazzini ospitati nella casetta in giardino di casa Blackmore i nostri assistettero agli spettacoli dell’orrore, con i bokor e le maman mangiarono e brindarono a sazietà; J.J. fece un figurone col suo costume da rockstar e quando Sweeney si presentò alla festa in strada, sorridente, ebbro di vino e di allegria fra le braccia della sua amata fu uno schiaffo in viso ad accoglierlo.

Fu lì fra la folla, mentre la gente si faceva scherzi a vicenda e i bambini correvano ridenti in tutte le direzioni fra le gambe degli adulti che Teresa, che era rimasta in silenzio per tutta la serata, affrontò con rabbia il marito.

L’aveva uccisa, l’aveva tradita! Come poteva essersi dimenticato una cosa tanto grave? Come poteva dire di non ricordarsene, come poteva pretendere di essere perdonato!

Sweeney era esterrefatto e mortificato, ma non era mai stato un uomo paziente, e l’orgoglio di Re ribollì nelle sue vene.

Come poteva? Poteva e lo aveva fatto non per odio, non per rabbia, non per futili stupidi e gelosi motivi; Sweeney aveva dovuto farlo, e lo aveva fatto con la morte più nera del cuore!

Il Re aveva dovuto sacrificare la sua sposa, perché lei era guerra, una guerra truce e spaventosa, una guerra assetata ed ebbra di sangue e gloria, non si sarebbe mai fermata.

La guerra contro gli invasori sassoni era durata mesi, poi anni, le ossa dei morti avevano sostituito col loro bianco il verde delle dolci colline d’Irlanda, i boschi erano ricolmi dei fantasmi folli e rabbiosi dei soldati, la dolce acqua della torba era pregna di freddo sangue nero con cui non si poteva fare birra, e il sapore ferroso era ciò che si gustava a mangiare le more ed i frutti generosi della terra.

Lui era il Re, la guerra doveva finire prima che nulla rimanesse di uomini e terre, ma non sarebbe mai finita finché Guerra non fosse stata scacciata.

Per questo l’aveva uccisa; e da quel momento la pazzia lo aveva preso, il dolore gli aveva stracciato il cuore e la follia si era impossessato di lui per donargli il dolce oblio della dimenticanza, era divenuto il Re folle d’Irlanda ed aveva perso la sua corona.

E questo era quello che lei gli rinfacciava?

Era stanco, disse il Re, stanco di inseguirla, stanco di ricercare il perdono, stanco di quell’amore tormentato, stanco di lei.

E con queste parole ed un ultimo sguardo pieno di rabbia e di dolore, Mad Sweeney le girò le spalle e sparì fra la folla, lasciando Morrigan sola ed esterrefatta, Teresa in lacrime.

La Voodoo fest era accolta, come ogni anno, dall’enorme giardino cintato di una importante villa storica nel cuore della città vecchia. Due guardie si assicuravano all’entrata che nessuno che non fosse un fedele o un sacerdote entrasse giustificandola come festa privata ai turisti curiosi, ma era un ritrovo liturgico, un grande raduno dove poter ringraziare i loa e decidere chi investire della carica di gran papa o gran maman, una figura importante che avrebbe preso le importanti decisioni religiose quell’anno.

Papa Lemuel aveva discusso spesso con Anne Marie in quelle settimane in cui lei lo era andato a trovare spesso; non andavano d’accordo, ma erano entrambe persone intelligenti ed avevano molto di cui discutere. Una delle loro discussioni preferite era se l’intromettersi o no nella questione degli antichi.

Lemuel non poteva sopportare l’idea che la comunità fosse in pericolo, un pericolo che poteva giungere dalla palude. Il dubbio che nella loro amata palude si nascondesse qualcosa di maligno che tramava nel fango ribollente e melmoso lo aveva attanagliato da quando lo spirito della palude a Insmout gli aveva proibito di nascondere nell’acqua limacciosa il suo tesoro, lo scrigno di legno pregiato contenete il talismano che conservava la sua anima per renderlo immortale.

Perché quel diniego? Anne Marie però non era interessata, e anzi affermava che prima se ne fossero andati prima gli interessi di certe malvagie divinità sarebbe sparito con loro portando i loro interessi lontano da New Orleanse, ma Lemuel aveva una visione più amplia di quella della donna e si ostinava a dire che i poteri cosmici degli antichi erano qualcosa da cui nessuno si poteva nascondere. Così non correva buon sangue quando i due si incontrarono alla Voodoo fest.

Ma le paure di Blackmore non erano infondate. Infatti mentre i religiosi tenevano alte discussioni fra gli alberi scuri e sotto i bei tralicci coperti di rose autunnali illuminati solo da lanterne, candele e al luce lunare; mentre la banda suonava sul palco accompagnata da Jeremy che si divertiva con la sua chitarra e con il loa di Ogan Sh Wedo, Carter scomparve da sotto gli occhi premurosi si Rosalì.

Il piccolo mago era sparito e Rosalì era sempre più in ansia, tutti si mossero per cercarlo finchè un grido infantile e lontano non richiamò Jeremy, Lemuel, Rosalì e Anne Marie in una zona buia in fondo al giardino.

Il piccolo Carter stava venendo trascinato via da dieci negri che odoravano di palude, gli sguardi torvi e lunghi coltelli alla mano tentavano il rapimento del ragazzo.

Il combattimento fu veloce e brutale, i rapitori si palesarono come bokor pedro; mentre in città si osannavano i loa rada, la parte buona ed umana del panteon, i bokor pedro rimanevano nascosti al fondo della palude che circondava al città. Chi desiderasse malefizi e morte era da loro che andava e i loro loa nulla preferivano ai sacrifici umani. Il loa che questi bokor riverivano era Marionette, un petro femmina particolarmente malvagio che faceva bambole e marionette dei nemici dei suoi fedeli.

Ma i nostri resistettero bene all’attacco, Lemuel era stato reso immune dagli attacchi di altri bokor grazie ai rituali mistici trovati nel libro di Dzyan e i malvagi sacerdoti della palude dovettero lasciare andare la loro piccola preda e ritirarsi nel buio.

Randolph corse a cercare protezione fra le braccia della sua Rosalì, in lacrime; si sarebbe spaventato anche se fosse stato adulto ad essere assalito e trascinato via da dieci uomini armati di coltelli.

Lemeuel e J.J. Obbligarono uno degli spiriti dei corpi rimasti a terra a parlare; Lemuel aveva ragione, c’era qualcosa di malvagio ed antico sul fondo della palude, un antico Dio che aveva stretto patti con i petro e aveva loro ordinato di rapire il giovane viaggiatore per impedire loro di lasciare quei tempi e rimettersi in viaggio. C’era qualcosa nel buio della palude; c’era sempre stato, sempre ci sarebbe stato; arrivava dalle stelle ed era di una malvagità aliena perfino alle menti crudeli dei petro e dei loro servi malati di potere e di odio.

Quando il consiglio decretò il nome scelto per guidarli la scelta cadde su Anne Marie; la donna era rimasta molto colpita dall’evento dei bokor pedro e, comprendendo il suo errore di valutazione, si premurò di muovere al comunità alla difesa e alla battaglia contro gli abitatori della palude e i loro stellari alleati.

Quindi fu con molta più tranquillità che i nostri, salutando gli amici, seguirono il giovane Carter la mattina dopo per lasciare quel tempo e quel luogo.

La piccola grotta naturale vicino alla palude a cui li condusse il fanciullo era scura e molto fonda e vi entrarono senza portarsi nessuna fonte di luce. Nella più totale oscurità Carter estrasse qualcosa con cui aprì un passaggio; sentirono girare molte volte una chiave dentro ad una serratura che scricchiolava e scattava gemendo quando, finalmente, una fievole luce fendette l’aria umida e odorosa di muschio.

Oltre l’uscio la grotta che percorsero verso l’uscita fu completamente diversa; il muschio sulle pareti era verde, soffice, coperta di tenera salvinia e l’acqua che gocciolava dalle pareti odorava di pioggia fresca; quando ne uscirono furono verdi colline boscose ad accogliere il loro sguardo sperduto, grandi querce antiche le cui fronde scure e fresche sfioravano un cielo carico di pioggia autunnale.

Erano tornati ad Arkham, nel New England.

Un’ombra scura e ingombrante, che emetteva un rumore gracchiante ed alieno si mosse accanto a loro.

I nostri ricordavano le ammonizioni del piccolo Randolph Carter su chi si sarebbero trovati accanto una volta usciti dal passaggio, ma nessuno di loro era preparato a quella cosa aliena e ticchettante nascosta da una amplio e nero mantello che si muoveva curva ed incerta sugli arti; e la voce, la voce nulla più aveva di umano. Era difficile accettare che quella creatura raccapricciante fosse lo stesso fanciullo di pochi istanti prima.

La creatura che era Randolph Carter li portò in una grande magione poco distante sulle colline che presentò come la casa dei suoi avi, dove lui aveva passato l’infanzia e lì si presentò col nome di Zkauba di Yaddith.

La faccenda era alquanto complicata e spaventò per eccezionalità perfino papa Lemuel imponendogli un lungo brivido di sgomento.

Bastava loro sapere che lui era Carter e contemporaneamente non era Carter.

Il bambino che avevano conosciuto aveva perduto il suo corpo in uno dei suoi vagabondaggi fra le stelle fra le quali viaggiava la sua anima, si era smarrito in un corpo in cui ora lottavano due creature, quella nominata Zkauba da Yaddit e Carter.

Zkauba era gemello astrale di Carter, un Carter con una altra forma ed un altro nome su di un altro pianeta, ma un Carter con le stesse aspirazioni e la stessa storia, un mago, in cui Randolph si era incarnato durante la sua ascesa a Yaddith, il pianeta giallo ma dal quale non era più riuscito a distaccarsi.

Aveva dovuto lavorare anni, decenni per costruire una capsula con cui portare via quel corpo ticchettante, sgraziato e sgradevole da Yaddith e viaggiato fra le stelle per un tempo mostruoso, ma al fine era riuscito a tornare nella sua amata Arkam.

Ora però il corpo di Zkauba lo stava rigettando, folle e furioso, e così era fuggito nuovamente nel tempo e nello spazio con la sua forma eterea per cercare aiuto, e Rosalì aveva trovato loro. Potevano restituire il favore di averli riportati negli anni trenta aiutandolo a conquistare le sue proprietà che gli erano tanto preziose in quel momento di difficoltà, ma di quello avrebbero parlato in un altro momento; ora dovevano sapere che none erano soli nella loro cerca.

Randolph Carter li aveva a lungo osservati nel loro peregrinare ed era consapevole di dove sarebbe finita la strada bianca.

Dovevano prepararsi. Colmare le loro lacune sugli antichi per poterli affrontare fisicamente ma sopratutto mentalmente, di modo da non perdere la ragione quando li avrebbero visti nella loro insensata mostruosità così lontana dalla logica e dal pensiero umano.

Sarebbe sopraggiunta la guerra.

Ora dovevano parlare con l’unico uomo sulla terra che non solo li conosceva, ma ci credeva, e ne scriveva. Da lui avrebbero potuto avere tutte le risposte che cercavano, comprendere cosa avevano fatto, cosa avrebbero fatto e come, e contro chi combattevano; dovevano partire.

Così Teresa, J.J. E Lemuel presero la fida automobile che grazie a Legba li seguiva per ogni pertugio del tempo, e si diressero dove Carter li aveva indirizzati.

Providence, New England.

Non era posto dove un negro potesse passare inosservato e fu con molto risentimento verso i vicini che Lemuel e J.J. bussarono alla porta bianca in Angel street.

Teresa rimase in macchina, stretta nel suo dolore.

Da quando era sparito quella notte Sweeney non si era più fatto vedere ed aveva ignorato tutti i suoi richiami e la sua rabbia, e il suo rimorso.

Forse non lo avrebbe rivisto mai più.

Haward Philips Lovecraft aprì la porta di casa sua ai due sconosciuti, fu cortese e ospitale, incuriosito ma anche estremamente diffidente verso i suoi ospiti.

Non si trattava di un uomo facile con cui trattare, era distaccato, perspicace e indagatore e totalmente alieno a ogni tipo di modernità e usanza; il signor Lovecraft viveva in un’epoca lontana da quella per usanze e conversazioni; detestava la puzzolente e spaventosa New York, non era in grado di tenere una conversazione superficiale e l’amata moglie lo aveva appena lasciato rendendolo ancora più ostile al mondo esterno.

Ma quando gli mostrarono la chiave d’argento l’universo si aprì di fronte a loro.

Come avessero fatto scattare una serratura, dopo molte argute prove per far parlare lo scrittore dei suoi libri che lui insisteva chiamare solo fantasie, dopo tanti buchi nell’acqua e tentativi per convincere l’uomo della veridicità delle loro avventure, dei loro sfinimenti, degli scontri con la popolazione abissale di Insmouth, le loro paure di fronte al colore alieno venuto dallo spazio, landa folgorata, l’orrore e la rabbia provate di fronte ai porci rossi di Cibele a Hexam Priory e la pena per il giovane Barone Delapore; il tranello di Joseph Curwen, la gente delle dieci… e infine Randolph Carter e la sua chiave d’argento.

Di fronte al prezioso artefatto tutte le incertezze, le perplessità, la sfiducia e i sospetti di raggiramento del solitario scrittore caddero infrangendosi come cristallo colpito da una pallottola.

Era esattamente come se le era immaginata; in ogni dettaglio, ogni cesellatura, la forma, il peso, tutto corrispondeva alla chiave, la sua chiave.

Un fiume di parole trasportate dall’euforia ruppero l’argine della riservatezza del giovane uomo.

E dal terrore.

Lui sapeva, aveva sempre saputo che gli antichi erano reali, creature venute dallo spazio remoto agli albori del tempo quando la terra non era ancora nulla più che un ammasso pulsante e ribollente di fango fluttuante nello spazio. Ne sognava e ne scriveva da anni, ma mai, mai aveva avuto le prove delle sue paure, delle sue certezze, mai aveva avuto risposta alla strisciante, ambigua domanda che si poneva nel buio profondo della notte, se la pazzia dopo aver preso sua madre e suo padre facesse ormai parte della famiglia come un vecchio amico a cui lui appartenesse irrimediabilmente.

Di quei molossi alieni così lontani dai frutti della terra non era rimasto ciò che credevano.

Lovecraft spiegò che ciò che avevano visto e incontrato, le loro azioni, ciò che loro stavano subendo non erano che le azioni di un riflesso.

Gli Antichi e la loro progenie stellare avevano abbandonato il pianeta millenni prima; quello che rimaneva di loro era come il riflesso della luna in una palude, non erano realmente lì ma lo erano; i mostri erano reali come lo sono le ombra su di un muro; potevano ghermire, ingannare, uccidere, ma ciò che era davvero i loro padroni non esistevano davvero sul suolo terrestre anche se lo influenzavano e lo degeneravano.

M al’umanità non era sola in quella eterna battaglia contro la follia e la crudeltà degli Antichi; Gli dei Primigeni avevano richiamato e in parte creato quegli orrori astrali, creature aliene e benevoli che avevano visto la vita nascere sul pianeta, ci avevano combattuto, avevano perso nelle sconfinate lande ghiacciate di Lang sulle montagne dell’Antartide. Gli Dei primigeni erano coloro i quali li avevano protetti per tutto questo tempo, erano presenti nel Necronomicon e nei suoi libri, avevano simboli di protezione, preghiere e rituali.

La terra è come uno specchio che riflette l’immagine di quelle creature astrali che vivono nello spazio fra i mondi e non possono essere affrontati e sconfitti direttamente, non in questa dimensione. Sono ineluttabili come le stelle e l’universo per i miseri mortali.

Ma questo Haward ammise di non averlo scritto nei suoi mille racconti perchè si considerava già un pessimo scrittore e non pensava che il pubblico avrebbe apprezzato un ulteriore livello di complessità così assurdo.

J.J. Gli parlò di Carter ed un sorriso sconsolato e stranamente imbarazzato nacque sul viso dell’uomo.

“Carter sono io” aveva ammesso. Randolph Carter era il suo doppelganger, un grande sognatore, un viaggiatore fra i mondi, un uomo solo e perduto fra le stelle.

E Joshep Curwen?

L’alchimista di Salem? Curwen era un cultista atipico, egli sacrificava marinai alla sua causa per la ricerca dell’immortalità, poi, grazie ad i suoi studi, era arrivato a conoscere e servire gli Antichi e a raggiungere il suo scopo in un modo contorto e malato tipico dei malvagi dei.

Curwen si impossessava del corpo dei suoi discendenti, attraverso un lungo processo di empatia arrivava a fondersi con loro e ad impossessarsi della loro mente, scacciando la loro anima e prendendo un corpo giovane e sano per ridurlo lentamente allo stato di un vecchio. Questo era il segreto che si celava dietro la sua immortalità. Era tutto scritto sul suo libro.

Li aveva ingaggiati come sacrifici ai suoi dei; ma li aveva ingannati solo per metà, il libro di Dzyan era una scusa, andava realmente nascosto, ma sarebbe andato un giorno riconquistato dalle sue avide mani e sarebbe servito da lanterna nel buio, da faro per gli Antichi che li avrebbero seguiti per renderli folli, schiavizzarli a loro e, forse, un giorno divorarli. Il libro andava realmente portato lontano da New York e Curwen era evidentemente più che sicuro di poterlo recuperare in qualsiasi momento; il loro compito era riporlo dove realmente non lo avrebbe mai potuto trovare.

E di questa guerra di cui Carter aveva parlato loro?

Carter era un viaggiatore, combattere gli Antichi in terra non era possibile, probabilmente il mago aveva intenzione di portarli dove potessero combattere la loro battaglia a viso scoperto e nascondere il libro dove Curwen mai avrebbe potuto prenderlo.

Lovecraft parlò loro a lungo degli Antichi, degli Dei Primigeni, dei suoi libri e del pericolo costante che l’umanità correva con quegli abomini avidi così a loro agio con l’inganno; dei culti che li veneravano e dei cultisti che si nascondevano nelle ombre, nel fondo marcio delle città, nei boschi bui delle paludi.

Pieni di informazioni e di conoscenza i nostri tornarono alla casa di Zkauba e al favore che gli dovevano in cambio del passaggio.

Zkauba, sempre più debole e gracchiante, ordinò loro di portare alcuni fondamentali documenti a un caro amico con cui si era messo d’accordo tempo addietro per risolvere alcune diatribe legali di straordinaria importanza; dopodiché, promise loro, avrebbero fatto un viaggio, il più straordinario di tutti, nonché l’ultimo.