Racconti umoristici

Quelli vicino

“Non hanno nessun rispetto!” ringhia lui.
Un tuono squarcia l’aria, rimbombando fra i muri di cemento ed il cielo grigio, ma a lui piace, gli piace la pioggia pomeridiana, gli è sempre piaciuta, fin da bambino; per questo tiene tutte le finestre di casa spalancate quando piove, vecchie persiane di legno verde scrostate che stridono come streghe nella tempesta.
Gli piace quella luce traslucida che riempie l’aria, che riempie la stanza, gli piace l’odore pungente del petricore, gli piace sentire le gocce cantare mentre rimbalzano sulle persiane, tintinnare nelle grondaie. E gli piacciono i tuoni, gli piacciono anche perché la gente invece li teme e, di solito, quando tuona la gente sta zitta.
“Schifosi” biascica, furioso alla gente, mentre, dondolando sulla sedia è costretto ad ascoltare le grida che vengono da fuori, le vecchie dalla orrenda voce roca che strillano negli androni delle scale che devono ritirare i loro fottuti bucati stesi sui fili, i marmocchi che corrono piangendo perché le madri li tirano per non farli bagnare, gli stupidi, inutili cani che abbaiano alla pioggia.
Quando era giovane lui i cani erano bestie nobili che proteggevano e lavoravano, ora che il quartiere si è riempito negli anni di case e di gente hanno riempito le loro solitudini con questi botoli grassi; bestiacce inutili che riempiono i marciapiedi di merda che nessuno si degna di raccogliere, ti abbaiano quando passi per strada, abbaiano agli altri sacchi di pelo, abbaiano ai loro stessi padroni, giorno e notte, notte e giorno, e nessuno che dia loro una sana, robusta bastonatura come si faceva ai tempi suoi, quando esisteva il cane ed esisteva il padrone, mentre ora esistono gli “amici pelosetti” e la gente non è capace di essere padrona nemmeno di se stessa, figuriamoci di un’altra creatura come un gatto, un bambino o un cane.
“Merdosi!” sibila il vecchio. “Merrrdosi, merrrdosi!”, gli fa eco la voce gracchiante accanto a lui; il vecchio si gira a guardare il suo chiacchierone preferito nella sua gabbietta con un sorriso, poi torna a lamentarsi: “Non hanno il rispetto per la bellezza della pioggia, Sentinella, per la sua sacralità, e nemmeno per la vita degli altri, per la tranquillità; queste luride teste di cazzo che pensano solo alla loro merda, al loro schifoso bucato, ai mocciosi che non devono bagnarsi le scarpe! Ai tempi miei la pioggia si accoglieva come un dono di Dio! Irrigava i campi, riempiva i fiumi e i bambini venivano mandati fuori a ballare sotto la pioggia. Ma adesso… adesso sanno solo gridare, strillare, abbaiare e guardare solo alle loro misere vite fallite, e nessuno sa più godersi la pioggia.”
Il vecchio alza la testa, chiude gli occhi e assapora il profumo che arriva dalla campagna, dalle piante sui balconi, dal cemento caldo di sole e dall’asfalto. Quest’ultimo gli piace molto meno, e fa una smorfia.
“Ricordo quando non c’era tutto questo bitume nero qui, quando c’era l’acciottolato per strada, ed i mattoni che avevano quel bel colore, e quell’odore… quanto era bello questo quartiere, quanto era bello.” borbotta.
É anni che ormai il vecchio parla da solo, parla tutto il giorno, bofonchiando e aggirandosi per casa, l’unica palazzina ancora di mattoni e con le tegole sul tetto di tutto il quartiere. Una volta si ricordava di non farlo quando scendeva per strada a comprare il pane ed il latte, ma adesso non gliene frega più un cazzo di essere sentito; che lo sentano pure questi stronzetti, che abbiano paura del vecchio pazzo, che ordinino ai bambini di non avvicinarsi e ai cani di non abbaiargli!
Un bambino si mette a cantare da un balcone; il vecchio si alza di malumore e va alla finestra, piazzando le mani nodose sul marmo del ballatoio.
Il moccioso ha la pelle nera ed è stonato, pensa il vecchio, stonato, svogliato e stupido e la canzone che canta è ancora più stupida di lui; si è seduto e ha infilato le gambette magre nelle sbarre del balcone e le lascia ciondolare, nude avanti ed indietro, afferrando la ringhiera con mani sporche. Il vecchio gli lancia un’occhiataccia di fuoco, il moccioso se ne accorge e scappa dentro casa, chiamando la mamma, terrorizzato.
“Odioso marmocchio maleducato!”, sibila il vecchio, ma ha appena finito di ristabilire l’ordine che subito la strada gliene presenta un altro.
Un gruppo di gente passa sotto la sua finestra strillando nella loro orrenda, chiassosa lingua; si strillano addosso offese e bestialità riparandosi sotto i balconi dalla pioggia e si fermano a litigare proprio sotto la sua finestra. Il più litigioso ha solo un cappellino a proteggerlo dalla pioggia e si agita in mezzo alla strada, deciso ad ignorare le macchine che devono passare e gli suonano i clacson; altri maleducati lanciano fischi acuti che riecheggiano in tutto l’isolato come cani della prateria e fanno digrigniate i denti per il fastidio.
Il vecchio intravede delle bottiglie di birra nelle loro mani.
Corre dentro, va verso la dispensa e afferra un uovo. “Brutti bastardi, brutti bastardi incivili! Ma adesso ve lo insegno io il rispetto!”, biascica mentre torna traballante verso la finestra, si affaccia, prende la mira e lancia il proiettile. Quello si schianta con un soddisfacente rumore acquoso sulla testa dell’uomo che lancia uno strillo.
“Tornatevene nel vostro paese a rompere i coglioni!”, gli grida il vecchio con un grosso sorriso soddisfatto sul volto incartapecorito: “Strillate brutti bastardi? Ora ve lo do io un buon motivo per strillare!”, e dicendolo un secondo proiettile colpisce l’uomo dritto sulla spalla.
“Vecchio stronzo!” gli grida l’uomo di rimando con forte accento spagnolo, il vecchio gli fa una lunga, sonora pernacchia che rimbomba fra i palazzi.
Un neonato si mette a strillare come lo stessero spellando vivo, nessuno fa nulla per zittirlo, il vecchio tirerebbe volentieri un uovo in testa anche a lui e a quella oca della madre, ma deve accontentarsi di guardare i cicani che guardano su, inveiscono e scappano a rifugiarsi dal tiro delle uova, portando la loro birra, i loro odiosi litigi ed il loro osceno vociare in un altro isolato.
“Chiamo i carabinieri!”, finisce di gridargli l’uomo, furioso, prima di voltare l’angolo, tirato per la maglietta da una donna della sua compagnia. La larga faccia impiastricciata di tuorlo d’uovo e l’espressione sconvolta è ridicola per il vecchio, che ride, ride di lui, del suo starnazzare e della sua stupida faccia sporca d’uovo.
“Chiamali faccia di merda, tirerò le uova anche a loro!”, gli risponde il vecchio, ridendo di una risata cattiva.
Quando era giovane lui e al posto di quegli osceni palazzi di cemento c’erano case dignitose e ancora un bel pezzo di campagna le persone si parlavano, se vedevano qualcosa di sospetto intervenivano, quando un bambino strillava troppo forte se ne preoccupavano e se ce ne era bisogno lo suonavano, se un cane abbaiava andavano a vedere cosa lo aveva messo in allerta e se un vecchietto tirava in testa a qualcuno in strada un uovo si mettevano a ridere e non mancavano di dire la loro: “Bravo vecio!” oppure “E ringrazia che lui ti ha tirato le uova, io ti tiravo le patate!” avrebbero detto, contenti di avere una vedetta nel quartiere che allontanava gli schiamazzatori molesti ubriachi di birra, anche se allora non c’erano i sudamericani nel quartiere, non ci si ubriacava con la birra, ai bambini non veniva permesso di disturbare per delle ore con i loro strilli dai balconi eccetera eccetera…
Il vecchio si gira verso Sentinella, che lo guarda dalla gabbietta di bambù e cinguetta; il vecchio fa passare un dito ossuto fra le sbarre e gli sfiora il petto piumato, nero come il catrame.
“Sporchi cafoni! Sporchi cafoni!”, gracchia il merlo, facendo un lungo fischio.
Il vecchio ride allegro: “Bravo Sentinella, dillo forte!”
Suonano al campanello di casa, Sentinella lancia un lungo fischio di sorpresa mentre il padrone arranca verso l’ingresso.
Guarda dallo spioncino e chiede: “Chi è?!”
Una voce, timida, risponde dall’altra parte; “Signor Elia, sono Dina.”
Il vecchio emette un ringhio sommesso; “Cosa vuole?!”
La donna si stringe ancora di più la vestaglia color pesca attorno al seno inesistente e si sistema gli occhiali troppo grani per quel faccino smunto, ritenta, la voce un flebile miagolio: “Signor Elia la prego, hanno di nuovo suonato il mio citofono urlando di tutto a me, ha tirato delle uova addosso a delle persone?”
Il vecchio si irrigidisce, apre le quattro mandate della porta con altrettanti rumori secchi come fucilate e apre la porta blindata, aggredendo la donnetta che, in ciabatte, si ritrae spaventata; “Certo che l’ho fatto! E non dovrei essere il solo a far tacere i cafoni come quelli! Se lei e suo marito, come tutti quelli del palazzo, faceste qualcosa per gli schiamazzi, le urla, i fischi e tutta questa bolgia si vivrebbe bene in questo quartiere! E invece sapete solo farvi gli affari vostri vero?! Ai miei tempi…”
“Hai miei tempi! Hai miei tempi!”, gracchia Sentinella, agitandosi su e giù nella gabbia, eccitato a vedere persone che non siano il suo padrone. Il vecchio sorride e chiede alla donna: “Ha sentito? è intelligente sa? Molto intelligente il mio Sentinella. I merli indiani sono creature fantastiche, lo sa che il primo uomo che sentì parlare una gracula religiosa…”
La donnetta alza gli occhi al cielo e ci riprova un’ultima volta: “Signor Elia, per favore, è un quartiere popolare, siamo in tanti e cerchiamo tutti di non darci fastidio a vicenda, ma lei non può pretendere…”
Il vecchio torna a guardarlo con una faccia disgustata e le chiude la porta in faccia.
“Stupida donnina senza spina dorsale.”, sibila.
Qualcuno ridacchia.
Elia riapre la porta con uno strattone, furioso: “Ride di me?!” ringhia, infastidito.
Ma la signora Dina è già andata via.
Elia richiude la porta sulle scale, sbattendola tanto forte da far vibrare le pareti.
Qualcuno nel palazzo si lamenta di quel botto ma ad Elia non importa fin quando un tonfo, ovattato, arriva da una parete.
Tre tonfi per l’esattezza, precisi come rintocchi di orologi.
Elia si irrigidisce incredulo per poi mettersi a gridare: “Osate azzittire me?! VOI?!”, gracchia offeso verso il muro.
Altri tre tonfi secchi, e delle risate, lontane ma non abbastanza lontane da venire di fuori.
Vengono da dentro, da oltre il muro.
Sentinella fischia, spaventato e si mette a svolazzare nella gabbia. Elia va a prendere il fido bastone da passeggio e lo batte forte sul muro, dicendo loro di non azzardarsi mai più a picchiare sul muro “Oh chiamo i carabinieri!” li minaccia il vecchio.
Nessuno gli risponde, il silenzio torna a regnare nell’appartamento ed Elia, offeso, va a prepararsi la cena, una ingenerosa porzione di cima genovese accompagnata da un paio di polpette al sugo comprate alla rosticceria sotto casa ed un boccone di pane.
Poi apre la gabbietta a Sentinella che, agile, gli vola sulla spalla sinistra dove rimane a fischiettare felice. Hanno una routine da rispettare, la cena ascoltando il radiogiornale stando seduti in cucina, poi il telegiornale in televisione seduti in poltrona ed un vecchio film a concludere la serata, non una di quelle porcherie moderne, dopodiché a nanna entrambi, merlo e padrone.
Elia è soddisfatto della sua giornata, è soddisfatto della sua vita, anche se preferirebbe vivere in un posto migliore, più pulito, più tranquillo; ma in verità no, preferirebbe che il suo quartiere tornasse ad essere pulito e tranquillo come era una volta, quando ci abitava ancora con i suoi genitori da cui ha ereditato la casa e nella quale era andato a vivere tanti, tanti anni prima con la sua Olimpia.
“La mia dolce, dolce Olimpia.” sussurra con un sorriso ogni sera prima di dormire, accarezzando il cuscino vuoto accanto a se.
Ogni volta che spegne la luce, nell’ombra, sdraiata sul letto accanto a lui, la sagoma di sua moglie si staglia nella penombra; le luci dei lampioni che arrivano dalla strada e si lasciano affettare dalle assi delle serrande per poi farsi filtrare dalla tela gialla e sottile delle tende e stamparsi sul soffitto bianco da dove illuminano delicatamente la stanza.
Il vecchio Elia la intravede nell’ombra, scorge la curva di un fianco, i fini capelli di nebbia raccolti sulla nuca, un sorriso piccolo e tenero, e sorride, e sente parlare.
Ma Olimpia non gli ha mai parlato dall’ombra.
Il vecchio si alza di scatto e accende la luce sul comodino, guarda l’ora, le undici passate.
Tende l’orecchio. Sentinella dorme beato nella sua gabbietta, lo può vedere stagliarsi contro la luminescenza delle tende del salotto.
“Ma cosa… chi diavolo…” bofonchia il vecchio, infastidito.
Una risata.
Elia corre a vedere di sotto, ma prima va ad armarsi di altre uova, ma in strada non scorge nessuno, no, le risate arrivano da oltre il muro.
Furioso batte il pugno sul muro, “Sono le undici di sera! Finitela subito!”
Sentinella si sveglia di soprassalto e si mette subito a gracchiare e fischiare, spaventato.
“Sporchi, sporchi! Sporchi cafoni! Merrrrdosi!” trilla l’uccellino.
Tutto tace.
“Tranquillo Sentinella, tranquillo. Dormi ora, da bravo.” lo rassicura il padrone; il suo uccellino lo guarda adorante da oltre le sbarre e, lentamente, chiude di nuovo gli occhi color del vetro nero.
Elia vorrebbe tanto capire chi si sia trasferito accanto a lui. “Domani mattina chiamo l’amministratore e gli racconto tutto!”, bofonchia, prima di riaddormentarsi.
“Signor Parodi le ho già detto di smetterla di telefonarmi per questo genere di cose!”, risponde l’amministratore, esasperato. Elia sorride, malvagio, nella cornetta del telefono e risponde che non solo è suo totale diritto chiamare per disturbi ma anche che era suo assoluto dovere fare il suo lavoro e starlo ad ascoltare tutte le volte che telefonava.
“Se vuole torniamo a discuterne amministratore, io ho tutto il tempo del mondo nella mia giornata, sa, sono un pensionato, mentre lei è un uomo così impegnato…”
“No no no! Per carità!” risponde l’amministratore con un sospiro rassegnato. “Mi dica” aggiunge con il tono di uno che preferirebbe essere altrove.
“I nuovi vicini fanno baccano! Pensi che ieri notte hanno schiamazzato tutta la notte, e hanno osato battere sul muro, a me!”
“Non mi risulta ci siano nuovi inquilini accanto a lei Parodi” bofonchia scoraggiato l’uomo. “ma controllerò”, aggiunge subito, terrorizzato dall’idea di prendere l’ennesima ramanzina dal vecchio.
“Bene!” gracchia il vecchio.
Si rivolge al muro da cui non è vero che sono arrivati rumori tutta la notte, e grida: “Avete sentito voi?! Vi faccio vedere i sorci verdi vi faccio!”
“Abbiamo sentito! Abbiamo sentito!”, Elia fa un salto sulla poltrona per lo spavento, la cornetta del telefono gli sfugge di mano e finisce sul tappeto, ciondolando dal suo filo e rimanendo li, a penzolare.
“Sentinella!”, il padrone sgrida l’animaletto girandosi verso l’uccello, che lo guarda con occhietti curiosi, poi aggiunge, pieno di dubbio: “Cosa hai detto?”
Ma il merlo arruffa le penne e non risponde.
I giorni seguenti passano, l’autunno ha riempito l’aria ormai e le piogge sono frequenti; Elia non smette di insultare chiunque osi fermarsi a chiacchierare amabilmente sotto la sua finestra ma ora, ogni volta che lo fa, sente una risata da oltre il muro, soffocata, e cattiva.
“Non possono rimanere tutto il giorno in casa a ridere di me”, borbotta a Sentinella. “E poi perché non li vedo mai uscire sul pianerottolo?”, chiede al merlo che però risponde solo con i fischi ed Elia non ha nessun altro a cui chiedere un parere, o un aiuto.
“Olimpia, dolce Olimpia”, confessa una sera alla sagoma lieve accanto sdraiata a lui nel buio: “Ho paura.”
L’ombra gli sorride lieve “Forse vecchio testone, se tu fossi un po’ più gentile con gli altri loro lo sarebbero con te. Ci hai mai pensato a questo?” e poi continua, con voce flautata di vecchietta: “Una volta non eri così Elia, eri gentile, te lo ricordi? Aiutavi tutti nel quartiere, e quand’è che sei diventata così scorbutico?”, chiede.
Elia non risponde, è terrorizzato a morte, il cuore gli batte furiosamente nel petto e fatica a respirare.
Olimpia si alza a sedere sul letto, la può vedere bene, la camicia da notte in cotone candida che si riflette come il lenzuolo di un fantasma nella flebile luce della stanza, i capelli che le incorniciano il viso, vaporosi come una nuvola, gli occhi azzurro ciclamino che brillano appena al centro del viso che è una macchia diafana nell’ombra.
“Te lo dico io quando”, sussurra Olimpia, guardandolo con i piccoli, luminosi occhi sorridenti: “da quando sono crepata io.”
TUMP TUMP TUMP!
Elia salta su dal letto gridando, le grida di un vecchio sono una cosa strana da sentire, sono fievoli e disperate, come il pianto di un bambino che viene soffocato da un cuscino.
“CREPATA! CREPATA!”, strilla Sentinella, frullando le ali come impazzito nella sua gabbietta.
Elia è sicuro di aver sentito tre tonfi sordi venire dal muro.
La figura diafana di Olimpia non c’è più, o forse sì, ma ora lo osserva da un angolo buio della stanza,e ride, ride, ride. Mettendosi le mani nodose davanti alla bocca come una bambina, ride.
Elia può vedere lo scintillio delle bianche perle dei denti nella penombra.
Elia non chiude occhio, lentamente la casa torna nella quiete, Sentinella si riaddormenta, l’ombra smette di ridere, lentamente, come recalcitrante a smettere, come se non riuscisse a non trovare terribilmente divertente qualcosa, forse quel vecchio tremante nel suo letto che non ha il coraggio di accendere la luce, ne di alzarsi, ne di girarsi, ma che rimase tutta la notte a fissare quell’angolo buio tremando, in completo silenzio, finché le luci dell’alba non dissiparono le ombre mostrandogli che non c’è nulla lì, nell’angolo fra il vecchio armadio e la specchiera.
Quando arriva mezzogiorno Elia è ancora nel letto, che fissa insistentemente l’angolo.
Sentinella trilla e fischia da quasi dieci minuti perché vuole uscire dalla sua gabbietta e fare pranzo appollaiato sulla spalla del suo amato padrone, così il vecchio trova al forza di alzarsi, per amore del suo piccolo Sentinella.
Suonano il campanello ed Elia va a vedere chi è senza bestemmiare, ne gridare; con il merlo sulla spalla sbircia dallo spioncino e poi apre la porta senza protestare.
Dina sta sul suo zerbino con aria preoccupata, le mani strette in grembo, il cappotto imperlato di pioggia ottembrina. “Signor Elia, sta bene? Non l’ho vista dal panaio questa mattina e mi sono preoccupata si fosse ammalato.”, dice la piccola signora con un sorriso timido.
Ma Elia, anziché bofonchiare che non vuole scocciatori in casa sua e che la sua salute sono affari solamente suoi, questa volta le spalanca la porta.
“Signora, entri, la prego!”, farfuglia, allunga un braccio come a prenderla per una spalla ma non ce ne è bisogno perché la signora Dina, per quanto reticente, entra.
Conosce bene l’appartamento, ogni cosa ancora al suo posto come l’aveva lasciato quasi dieci anni prima, quando è uscita da quella porta per l’ultima volta e non è mai più stata invitata a tornare.
Sbircia nel salotto e sorride teneramente quando vede che la poltrona di Olimpia è ancora nello stesso posto, i suoi occhiali da lettura sono ancora appoggiati sul cuscino, come fosse andata in cucina a preparare un caffè e lei fosse appena entrata con i pasticcini per le chicchere della domenica mentre Elia sedeva sul divano a leggere il giornale e ridacchiare dei loro schiocchi ma innocui pettegolezzi. Olimpia lo rimproverava e lui le prendeva in giro, ma tutti ridevano. Chissà da quanto tempo nessuno ride più in quella casa, si chiede Dina, senza sapere che è appena successo.
“Lo ha sentito?!”, chiede Elia, tendendo l’orecchio, ma Dina scuote la testa, preoccupata: “No Elia, io non ho sentito nul…”, non fa in tempo a finire al frase che Sentinella le salta su di una spalla e si mette a parlare: “Sono quelli vicino, quelli vicino.”
Elia scuote la testa tendendo un dito ossuto dove il merlo balza ubbidiente, e borbotta: “Sì, sono quelli vicino. Signora Dina li sento ridere, e battere sui muri giorno e notte, mi insultano, insegnano parole nuove al mio Sentinella e ci sono cose… cose nascoste nell’appartamento che prima non c’erano…”
Elia non vorrebbe apparire pazzo, ma ha paura, ah tanta paura e non sa come fare, non sa cosa dire.
Ma Dina gli mette gentilmente una mano sulla spalla e scuote la testa. “Ma signor Elia”, comincia delicatamente: “Non c’è nessuno nell’appartamento vicino”, e per confermare le sue parole tira fuori dalla borsa un mazzo di chiavi, esce nel ballatoio e ne infila una particolarmente vecchia nella toppa, poi gira.
La porta si apre, con grande stupore di Elia.
Dina spiega: “Se ne è dimenticato? Ho io le chiavi di questo appartamento da quasi dieci anni ormai; me le diede la signora Margherita per farla vedere agli interessati ma non è mai venuto nessuno. Venga a vedere Elia, venga, è vuota.”
Questa volta è Dina a protendere una mano verso Elia per fargli coraggio, straordinariamente Elia la afferra e si lascia tirare fuori di casa sua, in pigiama e con la compagnia del fidato Sentinella.
L’appartamento è bianco in ogni dettaglio; i muri sono vecchi e scrostati e non c’è nemmeno un mobile, le lampadine sono nude a penzolare dai soffitti e non c’è nessuna impronta di piede nella polvere dei pavimenti di graniglia.
La luce del primo pomeriggio autunnale entra, dorata, dalle finestre sigillate e la polvere danza, dorata, nella luce color ambra.
Non c’è nessuno.
Elia si sente mancare, balbetta: “Dina, sono sicuro che c’era qualcuno qui dentro ieri notte. Li ho sentiti!”, ma Dina scuote la testa tristemente: “Sarà stato un eco dalla strada Elia, qui lo vede anche lei, non c’è nessu…”
TUNP TUMP TUMP! Dina sobbalza, il suo povero, piccolo cuore le fa un balzo in petto; dietro di lei, dal muro che da sua casa sua sono arrivati tre colpi sordi.
Colpi precisi come orologi.
“HA SENTITO?! HA SENTITO?!”, quasi grida Elia.
TUMP TUMP TUP!
Arriva dal muro alle sue spalle, e poi dal pavimento, dal soffitto, rumori di passi veloci, risate, piedi invisibili corrono, tutti suoni che arrivano da oltre i muri, da dentro i muri, tutto intorno a loro, dagli spessi, scrostati muri.
TUMP TUMP TUP! TUMP TUMP TUP! TUMP TUMP TUP!
Sentinella spicca il volo e comincia a girare disperato nella stanza, caccia qualcosa come un falco caccerebbe un passerotto, lo insegue per la stanza lungo i muri, beccando negli angoli e sulla pittura bianca facendo sollevare nuvole di polvere di gesso candida, impazzito dalla rabbia, o dalla paura.
Il rumore è assordante, Sentinella gracchia impazzito, i muri tremano, Dina si mette le mani sulle orecchie e trema; pensa ad un terremoto anche se dopo si renderà conto che non c’è stato nessun terremoto e l’unica spiegazione vagamente plausibile che la paura le aveva fornito non era assolutamente valida, perché nessun altro lo ha sentito, ne li ha sentiti gridare.
“ESCA DA QUI!”, grida Elia, prendendola per le spalle e spingendola verso la porta; quella sta per chiudersi da sola ma l’uomo la raggiunge e ci mette davanti una mano bloccandola poi con un piede, e gridando ai muri,” LASCIATE STARE LA MIA VICINA, LA MIA AMICA!”, i muri tremano, Sentinella si abbatte con uno schianto conto una angolo, cade a terra, rimane li a dimenarsi, rantolando sul pavimento polveroso come un mucchio di piume nere, gracchiando di dolore.
La porta si chiude, con uno schianto.
Dina è fuori dall’appartamento ma Elia è ancora dentro; non si sente più nulla.
La piccola donna ansima, terrorizzata, batte i pungi sulla porta, chiama Elia, chiama i vicini.
Dalle scale la sentono, gente comincia ad accorrere; dagli altri appartamenti e dalla strada arrivano i vicini e il sudamericano a cui Elia aveva tirato le uova le settimane prima sale i gradini a due a due; l’uomo dà un’energica spallata alla porta dell’appartamento che cede con uno schianto.
Il vecchio è sdraiato in mezzo alla stanza, la polvere gli ha riempito il pigiama e la faccia.
Dina si butta su di lui, “Non respira! Chiamate un’ambulanza, vi prego!”, subito la gente obbedisce.
Sentinella, il piccolo e dolce merlo indiano a cui Elia aveva insegnato così tante parolacce, zoppica vicino al corpo del suo padrone, salta sulla sua pancia e si accovaccia lì, e canta, per la prima volta dopo tanto tempo Sentinella non parla, non fischia, non insulta, Sentinella canta.