Racconti umoristici

Carta

Se solo non fosse estate

e il caldo, quello afoso, quello appiccicoso, non salisse dall’asfalto macchiato e sporco dei vicoli di Genova e arrivasse fino a qui, un punto alto dove si vede il mare.

Questo punto alto è la mia nuova casa; la nostra nuova casa, mia e sua.

Ultimo piano di un brutto palazzo di un brutto quartiere, la scala è fresca e amplia e mentre sali gli scalini, scalini da vecchio palazzo degli anni cinquanta, puoi vedere i muri, come la luce, schiarire.

Arrivati al secondo piano già le impronte delle piccole mani sporche di rosso dei monelli non macchiano più la scrostata vernice verde del muro e timide, malaticce piante verdi sbucano ogni tanto da una nicchia sotto la finestra.

Terzo piano.

Le porte di compensato scuro divengono più lucide, le targhette su di esse sono scritte meglio e la consunzione dei gradini diminuisce.

Le targhe hanno scritte nomi esotici come Tuarez e Amir, ma sotto le strane risate dei bambini che vengono da dietro quelle porte, dietro i borbottii sommessi appena accennati o le grida furiose dei litigi, oltre la babele di lingue gutturali o squillanti ed incomprensibili senti già quel suono che chiamerai casa.

Quarto piano.

Ora la luce scende dall’alto azzurrina dal lucernario sporco; le voci babeliche si sono perse dietro di te e puoi sentirle mormorare, come parlassero appena dietro le porte e ti osservassero dai loro occhielli.

Quinto piano.

Finalmente.

La tua porta ti accoglie lucida. I pomelli di ottone brillano, sono gli unici a brillare di tutto il palazzo; nonostante la casa sia vecchia, nonostante l’appartamento sia vuoto da anni, quegli ottoni luccicano.

Come se nessuno avesse mai osato toccarli e sporcarli.

Amiamo la nostra nuova casa perchè è finalmente la nostra; io avrò il mio studio, lui il suo molto tecnologico e un po’ nerd, abbiamo una grande cucina, un grande salone.

Ce la siamo comprata straordinariamente a poco dopo aver cercato per tanto.

Ha i soffitti alti, altissimi! E il soffitto dei salotto è decorato a piccoli bassorilievi da “art nouveau” molto demodé.

Mi ricordo la casina di ringhiera di mia nonna; con il treno che passava veloce davanti alla nostra finestra tutti i giorni sei volte al giorno, e la ringhiera demodé vibrava, e io ridevo.

Strano che nessuno abbia voluto comprare questo appartamento, è il più grande e quello coi soffitti più alti di tutto il palazzo.

La anziana signora che ce l’ha venduta mentre ci dava le chiavi piangeva; piangeva e suo marito nemmeno la guardava. Non era mai riuscita a separarsi di quella casa in dieci anni. Davvero troppi ricordi.

Ci dissero che l’appartamento apparteneva alla prima proprietaria di tutto lo stabile; era lei che lo aveva voluto più grande, tanto che ha abbattuto i muri e invaso l’appartamento accanto, lei che ha voluto due balconi. Pare le piacesse davvero molto fare la gran signora dopo le restrizioni della guerra in un quartiere che all’epoca era famoso per le belle case dei nuovi borghesi. Doveva essere una specie di arpia dello stabile, di quelle cui i bambini dei vicini non fanno mai scherzi e che tutti chiamavano ancora “la Signora”.

Mentre il marito lo raccontava la moglie piangiucchiava nel fazzoletto e guardava in terra, uno sguardo straordinariamente cupo per qualcuno che sente parlare della madre, della casa dove è cresciuta e che dalla madre ha ereditato.

La abbiamo rincuorata, per quel che siamo riusciti, la abbiamo abbracciata e invitata a venire a trovarci quando avremo finito di ristrutturarla.

Quello sguardo nei suoi occhi; durò un secondo.

“Volete ristrutturarla?! Nessuno lo ha mai fatto, lei non ha mai voluto!” sbigottita. Poi si era rimessa a piangere; il marito ci ha sorriso tirato e se l’è portata via.

Un’ultimo sguardo vacuo di lei, come volesse dirci un’ultima cosa.

Solo quel sorriso, quello sguardo e il suo piangere.

Simpatici i vecchini, ma un po’ strani.

Oggi abbiamo tirato su tutte le tapparelle, aperto le imposte e verificato che si, la tappezzeria la si toglie, punto!

E allora vaporella ai 5000° e via di raschietto!

Lui è in salotto che dà, canticchiando, il bianco.

Se solo fosse estate; l’estate che alla fine è arrivata tutta assieme, ed è arrivata fino al quinto piano di questo brutto palazzo con quello spicchio di mare.

Il vapore è una sauna e la stanza si riempie di fumo bianco.

Penso a mia zia che si raccomanda: “non te lo dare addosso il vapore che c’è gente che c’è finita all’ospedale”; si zia, negli anni novanta, ora con questa vaporella riesco a malapena a scollare la carta.

Questa maledetta carta.

Carta da parati lavabile degli anni settanta.

Sette parole da scandire bene che descrivono l’inferno!

Vien via solo centimetro dopo centimetro con tanta, davvero tanta fatica.

Ora capisco perchè questa casa non l’ha voluta nessuno per tanti anni; la maledetta carta!

Secondo giorno.

Il sole batte sui vetri e il vapore sale.

Lui continua a canticchiare nell’altra stanza ma il motivetto ora è diverso.

La città si è svuotata e il caldo peggiora.

Lui suda ma io sono in un bagno di vapore, e questa carta schifosa che non vien via.

Centimetro dopo centimetro ecco che comincia ad apparire.

Il muro.

È vecchio come il palazzo, pare cemento nudo. È macchiato di nero, di grigio, di marrone, tracciato da macchie e crepe, se ci passo la mano sopra sembra un guscio d’uovo vecchio che si stà rompendo, qualcosa preme da sotto per uscire, e crepa il guscio di mille venature scure.

Il muro è caldo sotto la carta.

Terzo giorno.

La carta mi si appiccica alle mani, alla faccia, ai capelli; non posso più uscire dalla stanza tanta è la carta che cade dalle pareti. Cumuli di carta gialla e rugosa, umida e calda invadono alti ogni angolo della stanza stretta e alta facendo alte cataste afflosciate che quasi mi arrivano alla cintola.

Non vedo più i miei piedi, la porta è chiusa per poter togliere la carta dietro e sento solo, lontano, il suo canticchiare. Ovattato.

Questa carta arricciolata comincio a pensare mi derida.

Questa carta disgustosa.

Quarto giorno.

La carta calda ha cominciato a puzzare; la colla appiccica tutto ai vestiti e addirittura i vetri.

Sento il suo sapore amaro in bocca. Sà di vecchio, di gesso, di marciume.

Sputo.

Il mio sputo si attacca ai riccioli abbondanti che coprono il pavimento e poi sparisce, assorbito, o evaporato nel caldo.

Poi, da dietro la carta, fra di essa e il muro, cominciano a comparire.

Capelli.

Tanti fili lunghi ed elastici sotto la carta, nella colla. Non sono tutti raggruppati in un solo punto, sono sparpagliati nella colla, compongono strani disegni fatti di linee sulla parete e vengono via in filamenti lunghi ed elastici dalle mie dita. Mi si attaccano alle mani, sotto le unghie, mi finiscono fra i denti.

Non riesco a capire da dove arrivino.

Quinto giorno.

Non ho ancora finito, la stanza mi sembra sempre più grande e sono stremata. Il vecchio muro, marcio e rugoso indifferente a tutto il mio lavoro è crepato ed opaco sotto la mia mano. Ed è caldo, anche dopo che son passate tante ore da quando l’ho passato col vapore è ancora caldo, e umido.

E quei capelli.

Quei capelli che continuo a trovare.

Mi accascio per terra.

Sono così stanca ormai che non mi interessata di svanire fra i cumuli di carta sudata e appiccicosa. La carta cede sotto il mio peso e mi ricopre totalmente; vedo la luce gialla divenire arancione filtrata dagli strati di carta e mi sento come il muro, vecchia, rugosa, umida e calda.

Lui smette di canticchiare; non mi ero neppure accorta avesse cominciato ormai ore fa. In questi giorni dice sempre che sono taciturna, stanca e si preoccupa mentre mangiamo in silenzio una cena fredda che cuciniamo con sempre meno entusiasmo; ma io voglio soltanto finire il lavoro e strappare via tutta quella disgustosa carta da casa mia. Solo finire, nient’altro.

La voce di lui da dietro la porta mi chiama; col suo peso sento che cerca di aprirla ma gli strati di carta fanno resistenza e spessore e glielo impediscono; sento il frusci della carta e lo sbuffare di lui.

Si arrende, e mi parla da dietro il pannello appiccicoso della porta.

“Amore?”

La sua voce dolce dopo tutto il raschiare, e strappare.

Non riesco a rispondere, la carta e la colla mi chiudono la bocca, i movimenti ovattati da quel mondo di carta.

“Amore mio ho trovato una cosa strana mentre toglievo la carta da quel pannello della dispensa, ho trovato…”

“capelli” sussurro io

“un sacco di capelli! Questa colla è tremenda, quello che ha tappezzato doveva essere molto bravo o molto stupido. Mio nonno usava acqua e colla vinavil ma mi è venuta in mente una cosa creepy; sai cosa si usava una volta per fare la colla da carta ed è tutt’ora imbattibile?”

Cerco di emergere dalla mia tana di carta che ormai è una prigione gialla, annaspo, boccheggio.

“Ossa. Una volta per fare la colla per la carta da parati si usavano le ossa”

Lentamente guardo il muro.

Quel muro marcio e umido.

E quella carta.

Quella colla.

Mai una ristrutturazione dalla costruzione dello stabile.

Lei non aveva mai voluto.

La vecchia arpia; “la Signora”.

Lo sguardo vacuo di lei non era rimorso, era terrore.

Terrore dei ricordi di infanzia di anni del dopoguerra in cui la gente spariva nelle vecchie case di Genova sotto i coltelli di famiglie disperate disposte a tutto pur di far mangiare i figli, pur di avere qualche soldo in casa, pur di potersi concedere il gran lusso di mettere

carta da parati.

Non ci sarà un sesto giorno.