cuculo
Racconti umoristici

il Cuculo

«Ci sono persone, nel mondo, che non devono fare nessuno sforzo per avvicinarsi ai loro sogni; i sogni vanno da loro, pecore condotte al pascolo che si lasciano realizzare come i fiori sbocciano al tocco dell’alba.
Queste persone hanno occhi assurdi che non guardano, occhi profondi da cui non riesci a uscire, dentro i quali puoi vedere l’universo, i tuoi desideri, te stesso.
Queste persone non sono molte; sono rare, in verità, e sono imperturbabili, distaccate, si muovono nel mondo come fantasmi fra degli specchi, ma non quando guarderai loro negli occhi perché allora, e solo allora, vedrai tante di quelle emozioni da travolgerti, così vorticose e devastanti nella loro potenza da farti mancare il respiro, da annegarti e farti sentire piccolo, e vuoto.
Ricercate dalle anime romantiche come opali perfetti che li renderanno ricchi, scacciate o derise da tutti gli altri.»
Agata appoggia la penna dal quaderno e rizza la schiena.
Per questa sera è soddisfatta, e sazia di scrivere.
Non è soddisfatta invece di come le sta venendo il romanzo, è già la terza volta che lo riscrive tutto da capo e sente sempre di aver sbagliato qualcosa.
Si sventola col pizzo del ventaglio comprato al mercatino del vintage il primo pomeriggio passato con lui come una coppia, nel caldo e lucente pomeriggio del primo giorno dell’estate romana, asciugandosi il sudore che le imperla il petto amplio e lentigginoso, scoperto per la gran calura serale.
Scostandosi i ricci dal collo e annodandoli stretti sopra la nuca, per bloccarli con la stilografica, prende il portatile dal comodino, lo apre, guarda l’orario e si collega; ma lui ha bucato l’appuntamento e non è in chat.
Agata sbuffa, delusa. Dovrà aspettarlo, come spesso succede, ma lei è disposta ad aspettarlo, ad aspettarlo anche per cent’anni.
Agata aspetta.
Ad oltre duecento chilometri dalla villetta a schiera della periferia laziale dove abita Agata, un ragazzo alto e dinoccolato scende le scale, sottili e dinoccolate come lui, consumate dagli anni e dall’amore del lucido per marmi, che dal suo appartamento scivolano dolcemente giù in strada.
Ha un sacchetto di spazzatura stretto in una mano ma lo fa dondolare con eleganza come fosse una lussuosa borsetta di seta.
Un giovane uomo che si aggira con noncuranza fra i quindici ed i trent’anni.
Esce in strada sull’acciottolato cittadino, annusando l’aria profumata di gelsomino, profumata di notte.
I sampietrini, resi rotondi da secoli di passaggi, gli premono dolcemente sotto le piante dei piedi magri e troppo lunghi protetti solo dalla suola di corda delle sue scarpe di tela, scarpe rosse come ciliegie.
I lampioni oscillano nella brezza e le risate escono dai ristorantini del quartiere, le luci delle finestre ammiccano da dietro muri di edera e di glicine in fiore, i turisti in passeggiata serale guardano ogni cosa ammirati mentre mangiano un gelato, ragazze in abiti leggeri trotterellano sui tacchi alti per le strade, lanciando occhiate ammirate al bel ragazzo dalle scarpe color ciliegia che non si accorge nemmeno di loro, arrogante, strafottente, o solo sbadato.
Felice.
“Che schifo!” abbaia una voce roca a pochi passi da lui.
“Cosa?” chiede il giovane con disinteresse, alzando il coperchio del bidone nell’angolo buio e facendo scappare un grosso ratto nero.
“Dico, che schifo, lavarsi, spazzolarsi, uscire, spassarsela con gli amici, ubriacarsi senza sapere perché, andare a lavorare, tornare a casa, mangiare un boccone, dormire. Nemmeno un cane vive tanto male.”, risponde la voce.
Il ragazzo sorride, divertito, e risponde: “Non saprei, io un cane ce l’ho e, se non meglio di loro, di sicuro vive meglio di te”, risponde il giovane uomo, chiudendo il bidone della spazzatura e scrutando nel buio l’estraneo.
Il tizio che è ha parlato da accanto i cassonetti è bello per essere un vagabondo, ha lineamenti affascinanti, la mascella è affilata, i denti sono candidi come perle.
A un altro si sarebbero rizzati tutti i peli sulla schiena dalla paura quando quella voce lo avesse assalito dal buio, un altro sarebbe scappato rifugiandosi in casa, ma il ragazzo non si è scomposto, nemmeno per un istante.
Se non fosse che puzza di sudore e abiti luridi si intratterrebbe volentieri a parlare con l’estraneo, sedendosi lì, in mezzo alla strada, perché lui è quel tipo di uomo.
Lo sconosciuto lo guarda spaesato.
Poi si mette a ridere, tirando fuori una busta di tabacco dal gilet di pelle scamosciata liso che porta indosso.
“Paragonarmi ad un cane, che impertinente!”, ride.
Il senzatetto, leccando la cartina, lo fissa dritto negli occhi, ha occhi verde acqua che spiccano fra la sporcizia.
“Parlo di loro. Non di me o di te. Di loro.”, spiega, sputando per terra nella direzione di alcuni turisti che notano il gesto e si danno rapidamente alla fuga.
Avrà quarant’anni appena, ma il mare di rughe sottili come sentieri che ha sul viso color del cuoio conciato, e altrettanto glabro, lo fanno sembrare un vecchio, un centenario. Gli occhi allungati, gli zigomi alti. Un vecchio coi lineamenti di un ragazzino.
“E amici invece ne hai?”, chiede con gentilezza, infilando le mani in tasca.
“Oh sì, moltissimi, a sciami interi; ma non qui. Qui io ho soltanto lei.”, risponde il vagabondo, indicando la luna.
Lei gli ricambia lo sguardo ed ammicca, splende alta nel cielo.
I vecchi lampioni, impiccati alla ragnatela di fili sopra di loro, illuminano a malapena l’asfalto in pozze arancioni; se un blackout ora colpisse la città tutto diverrebbe azzurro, e argenteo sotto quella luna enorme.
“È tanto che vivi per strada?” gli chiede ancora il giovane, annusando l’aria muschiosa che arriva dal Tevere, a pochi centinaia di metri da lì.
Sa di cantina, di rane, muschio e vecchie pietre scivolose.
Il senzatetto fa spallucce, accomodandosi sul suo trono di spazzatura, cartoni e barattoli: “Tutta la vita o solo pochi anni. Magari ci sono finito ieri, magari sono quell’amico che vedevi al pub tutti i mercoledì e poi è sparito e ora non sai riconoscere, sono il collega che ha avuto una crisi di nervi, il fratello maggiore che tuo padre ha cacciato di casa.”
Il ragazzo lo guarda affascinato con grandi occhi scuri come l’universo, ma ora deve proprio andare, e sospira: “Un poeta, quindi. Bhè, temo di dover andare ad un appuntamento, poeta. Ti auguro buona fortuna, e buona notte.”, dice mentre si gira per tornarsene a casa.
“Ci rivedremo presto, Milo da Carassai!”, gli grida dietro il vagabondo.
Milo si stupisce, si gira a guardarlo.
È lì che fuma, seduto sui cartoni e con la testa reclinata all’indietro, riccioli di fumo azzurro salgono nel buio, verso la luna.
Chissà perché Milo era convinto che fosse sparito, risucchiato dalla spazzatura attraverso un passaggio segreto che lo avrebbe riportato nel suo mondo di sotto, lontano dall’umanità. Invece il tizio è ancora lì, che sorride al cielo, ignorandolo mentre Milo se ne torna al portone di casa.
I senzatetto sono tutti matti, e divertenti e conoscono segreti, conoscono storie, conoscono il suo nome.
Pensando a questo, cullandosi nella dolcissima sensazione di euforia che gli lasciano sempre addosso gli avvenimenti insoliti, Milo prende l’ascensore nella sua gabbia di cigolante ferro battuto fino all’ultimo piano, dove c’è la mansarda, la sua mansarda.
Rientra in casa, lo accoglie la musica che aveva lasciata accesa, il suo cane scodinzola quando lo vede rientrare e sbadiglia, stirandosi nella sua cuccia accanto alla poltrona.
Milo passa dal frigo a prendere una bottiglia di tè ghiacciato e si risiede in poltrona, riprendendosi il portatile che aveva abbandonato sul tappeto sulle ginocchia.
Milo:-Hey-
Agata: -Ciao amore! Che fine avevi fatto? Ci hai messo un sacco, più del solito-
Milo: -Scusa. C’è un tizio davvero carino che ho scoperto vive dietro i bidoni del mio isolato-
Agata-un barbone-
Milo-Una specie; più un punk, credo, un vagabondo; un poeta-
Agata- A Roma esistono ancora i punk?-
Milo-Credo di sì, lo spero. Comunque era davvero bello, peccato puzzasse da vomitare-
Agata-Ti ha infastidito?-
Milo- No, credo volesse solo un po’ di compagnia ed è stato interessante, di ispirazione-
Agata- Scommetto che voleva dell’altro che non un po’ di compagnia-
Milo- Gli sarebbe bastato chiedere-
Agata- ….tu ti porteresti a casa un barbone?-
Milo- Se accettasse di farsi una doccia sì, credo di sì. Pensa a quante storie avrebbe da raccontare-
Agata- Cristo Milo, davvero? Quella è gente pericolosa, sono disperati, potrebbe tagliarti la gola, portarti via il pc… nel migliore dei casi portarti via tutta la roba che hai in frigo o… stuprarti-
Milo- Hei, non ti devi preoccupare per me-
Agata-Non mi preoccupo, davvero, è che a volte penso che non ti importi nulla di vivere-
Milo- Questo è preoccuparsi angelo mio. Cmq no, mi importa eccome di vivere, solo non mi importa di vivere senza rischi, una grigia, fredda, monotona vita sicura-
Agata-…. sta scrivendo….-
Milo- Agoefilo?-
Agata-…sta scrivendo…-
Milo- Mi stai scrivendo una bella ramanzina sul non attaccar bottone con gli sconosciuti?-
Agata- Tu la conosci la sindrome del cuculo?-
Milo-L’uccellino che vive negli orologi a cucù?
Agata-si-
Milo-No! raccontamela-
Agata- Il cuculo è un uccellino che non ha il nido; a lui non importa di fare qualcosa in cui i suoi pulcini possano crescere, non gli importa di creare qualcosa che attiri la femmina, ne della posizione per non farsi mangiare, lui non vuole nulla di quello che vogliono gli altri uccellini. La femmina del cuculo depone le uova nel nido degli altri uccelli e le abbandona. Gli altri uccellini non sanno mica contare e non si accorgono che c’è un uovo in più nel loro nido e nemmeno che è diverso dai loro e così lo covano come tutti gli altri finché non si schiude-
Milo- Come ti è venuta in mente questa cosa?-
Agata- Me l’hai fatta venire in mente tu. Tu sei il cuculo-
Lo schermo diventa nero con uno schiocco, le luci si spengono, il giradischi di suo padre smette di cantare strascicando le ultime note in un muggito; rimane solo la candela che Milo accende tutte le sere sul tavolino del salotto.
É saltata la corrente.
Non che Milo non lo desiderasse, la luna quella notte è troppo bella per essere offuscata dalla luce della grande città, tutti devono notarla e venerarla.
Un cane in strada si mette ad abbaiare spaventato, Gigi, il suo trovatello, alza il muso allarmato ed uggiola.
Milo chiude il portatile stiracchiandosi come un gatto e allunga una carezza al suo cucciolo.
Agata glielo spiegherà un’altra volta perché lui è un cuculo, pensa mentre si toglie le scarpe, solleva i piedi dal tappeto e si accoccola in poltrona.
Gigi gli salta in grembo e fa la cuccia appoggiando il muso sulla sua coscia, attendendo fiducioso le carezze che Milo gli fa subito volentieri.
La luna di porcellana, lo guarda dalla finestra ed illumina il piccolo solaio; i suoi libri accatastati dappertutto, le vecchie ceramiche prese dai mercatini, i poster di vecchi film dimenticati, le sue collezioni; roba bella da artista, da poeta, dice Ago.
Eppure Milo non si considera un poeta, ne un artista.
“Tu credi sia un cuculo?”, chiede Milo alla luna.
“Io so di essere strano, come so che se quel vagabondo amico tuo me lo avesse chiesto avrei mollato tutto e sarei partito con lui all’istante. Forse più che strano sono inaffidabile, e assurdo… enigmatico anche per me stesso.
Chi sono io? Cosa sono… io?”
Milo si riempie gli occhi di luce lattea. Non ce la fa a restare chiuso nella stanza quando fuori c’è tutta quella luce bianca; si sente male, gli manca l’aria, la stanza sembra farsi più piccola, gli viene d’improvviso quasi da piangere.
“Esiste la dipendenza dalla luna come da qualunque altra cosa bella, non sono io che sono matto, è che ho una dipendenza!”, afferma convinto mentre rimette Gigi sul pavimento, apre la finestra ed esce sul tetto per raggiungerla.
“Torno presto Gigi”, promette con un sussurro prima di sparire per tetti a piedi nudi.
Milo ha sempre, fin da bambino, desiderato abitare in una bella casa come quella, una casa completamente diversa dal casermone dove è nato lui; case che a Carassai, casa sua, erano la norma per tutti tranne che per lui cresciuto nel, forse, unico condominio del dopoguerra fra tutta quella meravigliosa campagna punteggiata di valli e foreste così assomiglianti ai boschi ed alle valli delle fiabe.
Case belle come quelle dei film italiani di altri tempi: con le tegole rosse sul tetto, la scala di ringhiera che da sul cortile, un cortile con al centro un grande albero di frassino sotto i cui rami frondosi e verdi la gente fa festa, i bambini giocano, i ragazzi suonano la chitarra e accendono candele e piccole luci dopo il tramonto tenendogli inconsapevolmente compagnia.
L’albero doveva essere un frassino per forza; Milo non ha mai capito perché, ma voleva vivere vicino le fronde di un maestoso frassino.
E il frassino aveva trovato lui, l’aveva trovato in fretta, ancor prima di finire gli studi, una casa bella come quelle delle vecchie canzoni che gli cantava la sua mamma da piccolo: un appartamento romano, una vecchia soffitta vicino al mare, con una finestra, a un passo dal cielo blu.
È proprio quello il tipo di casa che Milo ha trovato, perché quello che Milo desidera Milo ha; è sempre stato così da che ricordi e ora guarda, sorridendo sereno, i suoi vicini cantare vecchie canzoni sotto di lui, appollaiato sulle tegole rosse del tetto, il coccio ancora caldo sotto le palme dei piedi nella notte d’estate.
I sogni di Milo da Carassai, da quando lui ricordava, andavano da lui mansueti come cani e si realizzavano sotto i suoi occhi senza che lui dovesse fare nulla.
Era così che aveva avuto il suo solaio a Roma, così aveva avuto il suo studio da fotografo di discreto successo (non troppo per non dover gestire la fama, ma abbastanza da permettergli di comprare tutto cià che desiderava), così aveva avuto i suoi carismatici amici, così aveva avuto i corteggiamenti dei ragazzi più affascinanti e delle ragazze più belle, così aveva avuto la sua piccola innamorata, romantica Agoefilo che non è bellissima, ne affascinante come le borghesi ragazze romane; è un po’ sovrappeso ed ossessionata dallo stile “dark academia”, nastri neri fra i capelli, gonne al ginocchio orlate di pizzo, lunghi ricci rossi, candele profumate e grossi libri da leggere, ma lo fa divertire, con i suoi brutti racconti fantsy e la sua ingenuità piena di stupore, una genuinità infantile di cui Milo si inebrierà fino a che non si stuferà, come spesso si stufa di tutto.
Ma non ah importanza perchè, poco dopo, qualcosa di ancora più bello ed interessante comparirà nella sua vita, come è sempre stato; la vita di Milo da Carassai è bella, è unica.
A molti chilometri da li la romantica, ingenua ed innamorata Agoefilo, come ama chiamarla il suo Milo, sospira.
Agata ha sempre saputo che ci sono persone nel mondo che hanno del magico, che non sembrano di questo pianeta, intraducibili e pericolose; Agata lo sa bene, è tutta la vita che cerca una persona così, qualcuno che la porti via, che la faccia innamorare come scrive nei suoi romanzi, fatti solo di personaggi come demoni, angeli ed elfi immortali e storie d’amore che tutti si rifiutavano di leggere; qualcuno che la facesse annegare nella gioia; lei vuole rimanergli accanto per sempre, senza stancarsi mai.
Milo è esattamente l’uomo che desiderava e Agata è incredula di stare insieme a lui, di stare insieme al bellissimo ragazzo speciale, al cuculo.
La ragazza chiude lo schermo del portatile e dà un sorso alla sua tisana ghiacciata.
“Questa relazione a distanza mi sta uccidendo di nostalgia”, borbotta al suo infuso limone, cannella e miele, rigirando la bustina col cucchiaino di plastica macchiato di rossetto.
In fondo anche lei è un cuculo, crede, una persona che non appartiene alla sua brutta casa nella periferia, ai suoi banali genitori; un ovetto portato da lontano da uno sconosciuto e abbandonato in un povero nido di comuni passeri che ti sfamano e ti accudiscono come fossi il loro pulcino, «piume delle loro piume, sangue del loro sangue», scrive Agata, riprendendo il quaderno e mettendoselo sulle gambe incrociate dopo aver appoggiato l’amata tazza con le fasi lunari sul pavimento, accanto al letto.
«Ma i cuculi lo sentono che quello non è il loro nido, percepiscono che per loro esistevano altri celi in cui volare, un altro canto tutto loro da cinguettare, che la loro vita è una farsa, che loro non sono passeri e che il loro mondo è un regno lontano, oltre l’orizzonte, oltre il confine del mondo.»
Quello che Agata non sa, mentre scrive ispirandosi al suo bel ragazzo, arrotolandosi i lunghi ricci tinti di rosso sulle dita, è che Milo non si è mai sentito così; Milo non ha mai pensato nemmeno per un secondo di essere speciale, Milo si è sempre vergognato senza saper come cambiare, Milo ha sempre avuto ciò che desiderava senza sentire di meritarlo.
Ma tutto questo Agata non lo sa ed è pensando a lui che si sdraia sul letto e fa scivolare la mano verso il ventre e poi giù, verso l’interno coscia e sotto le mutandine, mentre si tocca pensando ai ricci mori di Milo, ai suoi grandi occhi scuri, la sua pelle candida, gli zigomi perfetti impolverati di lentiggini; Milo, che non l’aveva ancora nemmeno toccata con un dito, facnedosi desiderare ancora di più.
Agata vortica nel suo momento speciale ansimando mentre la sua vecchia madre stende i panni nel caldo afoso della sera della periferia Italiana e suo padre, appena oltre il muro, guarda la partita con la birra in una mano e suo figlio maschio accanto.
Come comuni passeri.
I tetti romani profumano, al naso acuto di Milo, di rose, gesso rosso e muschio, e le tegole di coccio cinguettano sotto i suoi piedi.
La città è buia per colpa del black out che non ha colpito solo casa sua, ma l’intero quartiere.
La gente in strada ha acceso gli accendini per camminare e i ristorantino hanno acceso le candele, scusandosi con i clienti per l’inconveniente e assicurando che la corrente tornerà presto. I vicini continuano a cantare spensierati sotto i rami verdi del grande frassino e Milo si sente felice mentre cammina, quasi vola, sui tetti caldi di Roma, saltando sul vuoto da un tetto all’altro assieme ai gatti ed alla luna.
Sente qualcosa frusciare in modo diverso sotto le dita dei piedi, guarda in basso e si accorge che stava per calpestare un nido. Un piccolo nido di pulcini di colombo e uova.
Si china ad osservarli.
Le uova hanno il guscio azzurro e coperto di macchie azzurre mentre i risultati di quella covata sono cosetti rosei con teste enormi sui piccoli corpi gracili, vede il blu degli grossi bulbi oculari sotto le palpebre semitrasparenti ed ancora chiuse e becchi cartilaginei e minuscoli.
Prova un moto di disgusto; afferra le uova non ancora schiuse una per una con delicatezza fra le dita, e le butta giù dal tetto, in strada dove si spiaccicano con un rumore acquoso.
I pulcini superstiti pigolano disperatamente mentre Milo se ne va.
“Poveri piccoli cosini, indifesi e disgustosi; sei stato crudele a distruggere le uova, volevo farlo io!”, gracchia una voce vicino a lui.
Milo questa volta quasi cade dal tetto per la sorpresa e sbarra gli occhi chiari mentre guarda il bianchissimo sorriso del vagabondo brillare dall’ombra di un comignolo.
Che lui sappia non ci sono modi per arrivare fin lassù dalla strada, se ce ne fossero tutti gli appartamenti di Trastevere sarebbero già stati svuotati.
“Come hai fatto a…”, balbetta, stupito; poi aggiunge, in una giustificazione non richiesta, mentre arrossisce di vergogna come un bambino: “Non avrei mai ucciso i… i pulcini.”
Ma il vagabondo sorride, un sorriso pieno di comprensione, di empatia, un’empatia che Milo non aveva mai vissuto prima sulla sua pelle; nessuno era mai empatico con lui, nessuno poteva esserlo, perchè nessuno lo aveva mai capito, nessuno tranne quell’estraneo dai denti di perla e gli occhi verdi come la giada chiara.
“Sì invece. Non ti giustificare, Milo da Carassai; hai solo fatto quello che è nella tua natura, hai distrutto qualcosa che sarebbe nato solo per essere brutto; tu non lo sopporti, concepisci solo la bellezza, perchè non conosci altro.
Io lo capisco sai? Lo capisco bene.”
Milo lo guarda stupito, ma non fa in tempo a dire nulla che il vagabondo aggiunge: “Ti avevo detto che ci saremmo rivisti presto. Non mi hai chiesto il nome, prima, giù in strada. Io sono Luca, sono venuto a dirtelo, ho pensato dovessi saperlo, che ho un nome.”
Milo pensa che, se è arrivato fino a lassù, quell’uomo potrebbe entrargli in casa dalla finestra del lucernario e se lo troverebbe ai piedi del letto, o seduto in cucina, o gli avrebbe tagliato la gola mentre dormiva.
Milo adesso ha paura, non è mai stato un uomo che teme per la sua vita o le sue cose e non ha mai compreso la gente terrorizzata dall’idea che un estraneo potesse svaligiare loro casa, corrompere la sacralità della loro intimità; ma ora un pochino capisce.
“Mi… mi hai inseguito fin quassù?” chiede, titubante.
Ma Luca scuote le spalle e lo ignora.
“Stanotte è proprio bella vero? Ha messo su qualcosa di argenteo; credo quella veste sottile che gli regalai io. Ricordo che era raggiante quando la indossò la prima volta, solo per me; prima le avevano regalato soltanto canzoni capisci? Quei poveruomini solo quello potevano offrirle, ma io potevo donarle vesti d’argento e gioielli di rugiada. All’epoca era una sciocca, deliziosa bambina spensierata.”
Milo rimane guardingo mentre il vagabondo si siede su di un comignolo ad ammirare la loro comune amica, tirando su i piedi che, Milo nota, sono magri e scalzi come i suoi, e straordinariamente puliti.
Dopotutto quello che ha da dire è bello, pensa Milo, è proprio un poeta; ma non è bello il modo in cui ora lo guarda.
“Hai da accendere?”, gli chiede Luca.
Milo si infila automaticamente la mano in tasca, non vorrebbe e le dita gli tremano ma non può ritirarsi da quella conversazione senza fare un grande sforzo di volontà. Uno sforzo che non vuole fare.
Non trova nulla.
Strano, pensa, è la prima volta che gli succede, lui non perde mai nulla e non dimentica mai nulla.
Luca, ridacchiando, tira fuori un accendino dalla tasca del gilet, il suo accendino, quello che usa per accendere la candela sul tavolino del salotto; Luca lo accende e la luce arancione gli infiamma il viso ed i capelli che ora Milo può notare sono del colore della ruggine, innaturali, spumosi e di un arancio dorato fiammeggiante.
Luca gli lancia l’accendino, deve averglielo rubato, strano anche questo, a Milo nessuno è mai riuscito a rubare nulla; Luca è il primo e non ricordava di esserglisi avvicinato tanto.
“Ti senti solo, Milo?”, chiede l’estraneo lanciandogli un’occhiata da sotto in su, un’occhiata piena di compassione, di dolcezza, e di malizia.
“Ti senti diverso? Fuori posto? Incompreso?”, i suoi occhi brillano nel buio, occhi verdi come la giada chiara.
“Vieni qui Milo, la nostra amica non vuole che tu stia male, non questa notte. Vieni qui, da me.”, dice Luca, allargando le braccia e sorridendogli mellifluo.
La paura torna ad assalirlo e gli tremano le ginocchia mentre sente le intenzioni dello sconosciuto infrangerglisi addosso in ondate di marea ed appiccicarglisi sulla pelle; il desiderio è una trappola, lui si sente in una trappola, una trappola che si sta stringendo attorno al suo corpo.
“Vieni con me di tua volontà e non dovrai temere nulla, Milo”, sussurra Luca; i suoi occhi brillano nel buio come quelle dei gatti, le sue braccia si allungano.
Milo fa tre passi indietro da quelle lunghe braccia protese.
“No! No, grazie, davvero. Grazie ma credo tornerò a casa mia adesso; ti prego, ti prego non mi seguire!”, risponde con un brivido, alzando un po’ troppo la voce che gli stride in gola.
Milo non ha mai provato veri desideri sessuali verso nessuno; certo, fa sesso come tutti, e lo fa indistintamente con uomini e donne; ma non ha mai desiderato il corpo degli altri. Ama farsi abbracciare, e coccolare e a volte farsi selvaggiamente scopare, ma a quest’ultima partecipava attivamente solo quando andava a lui, ovvero molto di rado.
Agata gli aveva detto che la sua si chiama asessualità, ma adesso, verso lo sconosciuto prova un impulso angosciante, che lo spaventa, lo disgusta.
Milo scappa via per tetti come un topo d’appartamento.
Si gira a controllare che Luca non lo stia seguendo, guardando da sopra la spalla e senza fermarsi.
Qualcosa lo fa incespicare, dei movimenti veloci nella coda dell’occhio, qualcosa di troppo piccolo e veloce perché il suo cervello lo registri, ma forse lo ha fatto e ha visto delle piccole mani in quell’ombra, e facce, e occhi come capocchie di spillo. E sono tanti, uno stormo.
Uno stormo, uno sciame.
O una corte.
Fanno rumore di campanelli d’argento mentre volano, e corrono, e saltano, e ridono, giocando.
Milo corre, cercando di non cadere, di non scivolare, di volare più forte saltando oltre gli ostacoli, i comignoli, gli abbaini e le grondaie; Milo corre per mettersi in salvo, sapendo di essere inseguito.
Non ha mia avuto tanta paura in vita sua, sente che Luca è dietro di lui, lo sente come una presenza finché la sua voce, ad un passo dal suo orecchio sinistro, canta:
“Se sei d’aria lascia che la nebbia grigia ti avvolga
Se di terra lascia che la miniera scura ti accolga
Affonda il tuo anello, lascia che io ti colga
Cerca la sua sorgente, Milo che caracolla!”
Le ginocchia diventano molli per il terrore e non lo sorreggono più.
Inciampa, cade, le tegole sotto di lui si spezzano con un botto, volando via da tutte le parti come uccelli spaventati; il dolore dei graffi e del colpo lo pervadono e gli fanno vibrare le ossa.
Qualcosa ride con la risata di un bambino.
Le tegole si sbeccano con uno schiocco, spezzandosi facendo rumore di ossa secche una dopo l’altra sotto il suo peso, e scivolano giù verso il precipizio buio, verso l’asfalto duro.
Milo comincia a scivolare mentre le tegole su cui sta sdraiato si staccano una dopo l’altra come squame di pesce e lo trasportano giù, verso il ciglio del tetto.
“No, no, NO!”, grida Milo, arrancando, ma ogni tegola che afferra fra le dita si sfila dall’abbraccio delle sorelle e lo segue giù, sempre più giù.
Milo cade, precipitando nel vuoto con un grido in un lungo volo nel buio, nel silenzio.
Milo si schianta al suolo con così tanto dolore da bloccargli il respiro.
Qualcosa di caldo, umido ed appiccicoso si spande lentamente, liquido, sotto di lui sul selciato, incollandolo al suolo.
La luce esplode nella corte, riempiendo le finestre sopra di lui ed il lampione che ha colpito ondeggia nella notte come il corpo di un impiccato, illuminandolo col suo fascio ora sì, ora no.
“Qualcuno è caduto dal tetto!”, urla una voce li vicina.
“Cristo santo quanto sangue! Chiama l’ambulanza!”
“Un suicida?”
“Oddio, ma è Milo!”
Si lanciano richiami le voci sopra di lui, i vicini di casa che cantavano in cortile.
Dalle finestre illuminate le ante si aprono, gente preoccupata guarda di sotto richiamati dalle grida dei ragazzi.
Milo socchiude gli occhi i e vede, oltre i rami frondosi del frassino, la luna che lo osserva da lassù, e Luca, che lo osserva dal buio, con un sorriso.
“N… no…”, boccheggia Milo.
“Non… non farmi male… ti… ti prego!”, ma non riesce a muoversi, non riesce nemmeno a strisciare.
“Eccoti qui”, sussurra Luca, sorridendo dolcemente e chinandosi su di lui, dal buio; un sorriso così dolce da perdercisi, da annegarci.
Protende le mani come a raccogliere un cucciolo da sotto la pioggia: “Milo, il mio bambino, il mio piccolo, dolce, bellissimo e perduto bambino. Il più bello di tutta la mai corte. È passato tanto, tanto tempo, ma il tuo signore ti è venuto a riprendere, non sei contento? Vieni, ti riporto a casa, dove non soffrirai mai, non invecchierai mai, non morirai mai.”
“M… ma io qui sono f… felice. No non voglio… non voglio… andare… via. Mio buon signore, maestà, non portatemi via… non riportarmi… a casa.”, uggiola Milo; il dolore lo pervade completamente, delira mentre sente le carezze fredde della luna sulla pelle.
Ma Luca sorride ancora di più, famelico, e gli sussurra prendendolo fra le braccia: “Non mi interessa quello che vuoi; tu sei mio, mio e di nessun altro.”
Tutto diventa nero, e rosso, e doloroso mentre Luca gli accarezza i capelli e gli bacia la fronte.
Milo piange.
Quando l’ambulanza arriverà non troverà Milo.
I vicini di casa accorsi non troveranno nulla riverso nel sangue, Gigi non rivedrà mai più il suo padrone, Agata non verrà mai toccata come desiderava; perché la gente di Milo quello che desidera lo ottiene sempre, quello che ti hanno dato vengono sempre a riprenderselo, e sopratutto non perdono mai, mai, nulla.