cuculo
Racconti umoristici

il Cuculo

Ci sono persone, nel mondo, che non devono fare nessuno sforzo per avvicinarsi ai loro sogni; i sogni vanno da loro, pecore condotte al pascolo che si lasciano realizzare come i fiori sbocciano al tocco dell’alba.
Queste persone hanno occhi assurdi che non guardano, occhi profondi da cui non riesci a uscire, dentro i quali puoi vedere l’universo, i tuoi desideri, te stesso.
Queste persone non sono molte, sono rare, in verità, e sono imperturbabili, distaccate, si muovono nel mondo come fantasmi fra degli specchi; ma non quando guarderai loro negli occhi perché allora, e solo allora, vedrai tante di quelle emozioni da travolgerti, così vorticose e devastanti nella loro potenza da farti mancare il respiro, da annegarti e farti sentire piccolo, e vuoto.
Ricercate dalle anime romantiche come pietre preziose che li renderanno ricchi, scacciate e derise da tutti gli altri.
Agata appoggia la penna e rizza la schiena.
Per questa sera è soddisfatta, e sazia di scrivere.
Si sventola col pizzo del ventaglio comprato al mercatino il primo pomeriggio d’estate passato con lui, asciugandosi il sudore che le imperla il petto amplio, scoperto per la gran calura serale.
Prende il portatile dal comodino, lo apre, guarda l’orario e si collega; ma lui ha bucato l’appuntamento e non è in chat.
Dovrà aspettarlo, come spesso succede.
Ad oltre trecento chilometri dalla villetta a schiera di periferia dove abita Agata, un ragazzo alto e dinoccolato scende le scale, sottili e dinoccolate come lui, consumate dagli anni e dall’amore del lucido per marmi, che scivolano dolcemente giù in strada.
Ha un sacchetto di spazzatura stretto in una mano e lo fa dondolare con noncuranza come fosse una borsetta di seta; è un giovane uomo che dimostra fra i quindici ed i trent’anni.
Esce in strada sull’acciottolato cittadino, annusando l’aria profumata di gelsomino nella notte.
I sampietrini, resi rotondi da secoli di passaggi, gli premono dolcemente sotto le piante dei piedi magri e troppo lunghi protetti solo dalla suola di corda delle sue scarpe di tela, scarpe rosse come ciliegie.
I lampioni oscillano nella brezza e le risate escono dai ristorantini, le luci delle finestre ammiccano da dietro muri di edera e di glicine in fiore, i turisti in passeggiata serale guardano ogni cosa ammirati mentre mangiano un gelato, ragazze in abiti leggeri e scollature ampie trotterellano sui tacchi alti per le strade, lanciando occhiate ammirate al bell’uomo dalle scarpe rosse che non si accorge nemmeno di loro, arrogante, strafottente, o solo sbadato.
“Che schifo!” abbaia una voce roca a pochi passi da lui.
“Cosa?” chiede il giovane con noncuranza, alzando il coperchio del bidone nell’angolo buio e facendo scappare un grosso ratto nero.
“Dico, che schifo, lavarsi, spazzolarsi, uscire, spassarsela con gli amici, ubriacarsi senza sapere perché, andare a lavorare, stressarsi, tornare a casa, mangiare un boccone, dormire. Nemmeno un cane vive tanto male.”
“Anche io odio i weekend. Comunque io un cane ce l’ho, e credo viva meglio di te”, risponde l’uomo, chiudendo con cura il coperchio del bidone della spazzatura e guardando l’estraneo.
Il tizio che è spuntato da dietro i cassonetti è bello per essere un tossico, ha lineamenti affascinanti, la mascella è affilata, i denti sono bianchi.
A un altro si sarebbero rizzati tutti i peli sulla schiena dalla paura quando quella voce lo avesse assalito dal buio, un altro sarebbe scappato rifugiandosi in casa, ma il ragazzo non si è scomposto, nemmeno per un istante.
Se non fosse che puzza di sudore e abiti luridi si intratterrebbe volentieri a parlare con l’estraneo, sedendosi lì, in mezzo alla strada, perché lui è quel tipo di uomo.
Lo sconosciuto lo guarda spaesato: “Io parlavo di te, ragazzo.”
Si mette a ridere, tirando fuori una busta di tabacco dal gilet.
“Ti paio uno che si alza, si spazzola, si lava e va al lavoro?”, chiede il senzatetto, leccando la cartina e fissandolo dritto negli occhi, occhi verde acqua che spiccano fra la sporcizia.
“Sei un bell’impertinente tu! Ma questo di te mi piace sai? Paragonarmi ad un cane…”, l’estraneo ridacchia sommessamente. “L’unico problema che ho io sono loro”, aggiunge, sputando per terra nella direzione di alcuni turisti che notano il gesto e si danno rapidamente alla fuga. Avrà quarant’anni appena, ma il mare di rughe sottili come sentieri che ha sul viso color del cuoio conciato, e altrettanto glabro, lo fanno sembrare un vecchio, un centenario. Un vecchio coi lineamenti di un ragazzino.
Il giovane trattiene un sospiro, deluso; ora l’estraneo su quale teoria si lamenterà? Gli alieni? I complotti? Le prostitute del viale che lo cacciano via quando allunga loro venti euro bella speranza che se lo prendano mezzora con tutte le sue pulci? Per far restare la conversazione nella carreggiata della logica cambia rapidamente argomento.
“E amici invece ne hai?”, chiede gentilmente, infilando le mani in tasca.
“Oh sì, moltissimi, ma non qui. Qui io ho soltanto lei.”, risponde il vagabondo, indicando la luna.
Lei gli ricambia lo sguardo ed ammicca, splende alta nel cielo. I vecchi lampioni, impiccati alla ragnatela di fili sopra di loro, illuminano a malapena l’asfalto in pozze arancioni; se un blackout ora colpisse la città tutto diverrebbe azzurro, e argenteo sotto quella luna enorme.
“È tanto che vivi per strada?” gli chiede ancora, annusando l’aria muschiosa che arriva dal Tevere, a pochi centinaia di metri da lì. Sa di cantina, di rane e vecchie pietre scivolose.
Il senzatetto fa spallucce, accomodandosi sul suo trono di spazzatura, cartoni e barattoli: “Tutta la vita o solo pochi anni. Magari ci sono finito ieri, magari sono quell’amico che vedevi al pub tutti i mercoledì e poi è sparito e ora non sai riconoscere, sono il collega che ha avuto una crisi di nervi, il fratello che non sapevi di avere e che tuo padre ha cacciato di casa.”
“Un poeta, quindi”, borbotta il giovane, infastidito dal tono che sta prendendo la conversazione.
“Grazie per avermi spaventato con le tue interessanti parole, ti auguro buona fortuna”, dice mentre si gira per tornarsene a casa.
“Ci rivedremo presto, Milo da Carassai!”, gli grida dietro il vagabondo.
Milo si stupisce, si gira a guardarlo.
È lì che fuma, seduto sui cartoni e con la testa reclinata all’indietro, riccioli di fumo azzurro salgono nel buio, verso la luna.
Chissà perché Milo era convinto che fosse sparito, risucchiato dalla spazzatura attraverso un passaggio segreto che lo avrebbe riportato nel suo mondo di sotto, lontano dall’umanità. Invece il tizio è ancora lì, che sorride al cielo, ignorandolo mentre Milo se ne torna al portone di casa.
I senzatetto sono tutti matti.
Milo prende l’ascensore nella sua gabbia di cigolante ferro battuto fino all’ultimo piano, dove c’è la mansarda, la sua mansarda; rientra in casa, lo accoglie la musica che aveva lasciata accesa, il suo cane scodinzola quando lo vede rientrare e sbadiglia, stirandosi nella sua cuccia accanto alla poltrona.
Milo passa dal frigo a prendere una bottiglia di tè ghiacciato e si risiede in poltrona, riprendendosi il portatile sulle ginocchia.
Milo:-Hey-
Agata: -hei mia piccola musa! Ti hanno rapinato mentre buttavi la spazzatura? Ci hai messo un sacco-
Milo: -C’è un tizio davvero carino che ho scoperto vive dietro i bidoni del mio isolato-
Agata-un barbone-
Milo-Una specie; più un punk, credo, un vagabondo-
Agata-a Roma esistono ancora i punk?-
Milo-Credo di sì, lo spero. Comunque era davvero bello, peccato puzzasse da vomitare e fosse sciroccato-
Agata-LOL! Sciroccato! Solo mio nonno usa ancora quella parola! Tu te lo porteresti a casa un barbone?-
Milo-Se accettasse di farsi una doccia sì, credo di sì. Pensa a quante storie avrebbe da raccontare-
Agata-Cristo Milo, davvero? Quella è gente pericolosa, sono disperati, potrebbe tagliarti la gola, portarti via il pc… nel migliore dei casi portarti via tutta la roba che hai in frigo o stuprarti-
Milo-Agata non ti devi preoccupare per me-
Agata-Non mi preoccupo, davvero, è che a volte penso che non ti importi nulla di vivere-
Milo-Questo è preoccuparsi angelo mio. Cmq no, mi importa eccome di vivere, solo non mi importa di vivere come gli altri-
Agata-…. sta scrivendo….-
Milo-Agata?-
Agata-…sta scrivendo…-
Milo-Mi stai scrivendo in diretta un romanzo tutto per me?-
Agata-tu la conosci la sindrome del cuculo?-
Milo-L’uccellino che sta negli orologi a cucù?
Agata-si
Milo-No, raccontamela-
Agata-il cuculo è un uccellino che non ha il nido; a lui non importa di fare qualcosa in cui i suoi pulcini possano crescere, non gli importa di creare qualcosa che attiri la femmina, ne della posizione per non farsi mangiare, lui non vuole nulla di quello che vogliono gli altri uccellini. La femmina del cuculo depone le uova nel nido degli altri uccelli e le abbandona. Gli altri uccellini non sanno mica contare e non si accorgono che c’è un uovo in più nel loro nido e nemmeno che è diverso dai loro e così lo covano come tutti gli altri finché non si schiude.-
Milo-Come ti è venuta in mente questa cosa?-
Agata-me l’hai fatta venire in mente tu, tu sei un cuculo-
Lo schermo diventa nero con uno schiocco, le luci si spengono, il giradischi di suo nonno smette di cantare strascicando le ultime note in un muggito; rimane solo la candela che Milo accende tutte le sere sul tavolino del salotto.
É saltata la corrente.
Non che Milo non lo desiderasse, la luna quella notte è troppo bella per essere offuscata dalla luce della grande città, tutti devono notarla e venerarla.
Un cane in strada si mette ad abbaiare spaventato, Gigi, il suo trovatello, alza il muso allarmato ed uggiola.
Milo chiude il portatile stiracchiandosi come un gatto e allunga una carezza al suo cucciolo.
Agata glielo spiegherà un’altra volta perché lui è un cuculo, pensa mentre si toglie le scarpe, solleva i piedi dal tappeto e si accoccola in poltrona.
Gigi gli salta in grembo e fa la cuccia appoggiando il muso sulla sua coscia, attendendo fiducioso le carezze che Milo gli fa subito volentieri.
Il cane sospira felice sotto quelle carezze abili di chi è capace di quietarlo al solo tocco, come per magia.
La luna di porcellana lo guarda dalla finestra ed illumina il piccolo solaio; i suoi libri accatastati dappertutto, le vecchie ceramiche prese dai mercatini, i poster di film horror, le sue collezioni; roba bella da artista, da poeta, dice Agata.
Eppure Milo non si considera un poeta, ne un artista, ne un cuculo.
“Tu credi sia un cuculo?” chiede Milo alla luna.
“Io so di essere strano, e so che se quel vagabondo amico tuo me lo avesse chiesto avrei mollato tutto e sarei partito con lui all’istante. Forse più che strano sono inaffidabile, e assurdo.”
Milo non ce la fa a restare chiuso nella stanza quando fuori c’è tutta quella luce bianca; si sente male, gli manca l’aria, la stanza sembra farsi più piccola, gli viene d’improvviso quasi da piangere.
“Esiste la dipendenza dalla luna come da qualunque altra cosa bella, non sono io che sono matto, è che ho una dipendenza!” afferma convinto mentre rimette Gigi sul pavimento, apre la finestra ed esce sul tetto per raggiungerla.
“Torno presto Gigi”, dice con un sussurro prima di sparire per tetti.
Milo ha sempre, fin da bambino, desiderato abitare in una bella casa come quella, una casa completamente diversa dal casermone dove è nato lui; case che a Carassai, casa sua, erano la norma per tutti tranne che per lui cresciuto nell’unico condominio scrostato fra tutta quella meravigliosa campagna da favola.
Case belle come quelle dei film italiani di altri tempi, con le tegole rosse sul tetto, la scala di ringhiera che da sul cortile, un cortile con al centro un grande albero di frassino sotto i cui rami frondosi e profumati la gente fa festa, i bambini giocano, i ragazzi suonano la chitarra e accendono candele e piccole luci dopo il tramonto tenendogli inconsapevolmente compagnia.
Una casa come quelle delle vecchie canzoni: un appartamento romano, una vecchia soffitta vicino al mare, con una finestra a due passi dal cielo blu.
Ed è proprio quel tipo di casa che Milo ha trovato, perché quello che Milo desidera Milo ha; è sempre stato così e ora guarda, sorridendo, i suoi vicini cantare vecchie canzoni sotto di lui, appollaiato sulle tegole rosse del tetto, il coccio ancora caldo sotto le palme dei piedi nella notte d’estate.
I sogni di Milo da Carassai, da quando lui ricordava, andavano da lui mansueti come cani e si realizzavano sotto i suoi occhi senza che lui dovesse fare quasi nulla.
Era così che aveva avuto il suo solaio a Roma, così aveva avuto il suo lavoro da traduttore di cui sua madre si disperava, così aveva avuto i suoi amici, cosi aveva avuto Gigi, così aveva avuto i corteggiamenti dei ragazzi più belli, così aveva avuto la sua piccola innamorata, romantica Agata.
Ci sono persone nel mondo che hanno del magico, che non sembrano di questo pianeta, intraducibili e pericolose; Agata lo sa bene, è tutta la vita che cerca una persona così, qualcuno che la porti via, che la faccia innamorare come scriveva nei suoi romanzi, fatti solo di personaggi fantasy e storie d’amore che tutti si rifiutavano di leggere; qualcuno che la facesse annegare nella gioia.
Milo è esattamente l’uomo che desiderava e Agata è incredula di stare insieme a lui, di stare insieme al ragazzo speciale, al cuculo.
La ragazza chiude lo schermo del portatile e dà un sorso alla sua tisana ghiacciata.
“Questa relazione a distanza mi sta uccidendo di nostalgia”, borbotta al suo infuso limone, cannella e miele, rigirando la bustina col cucchiaino di plastica macchiato di rossetto.
In fondo anche lei è un cuculo, crede, una persona che non appartiene alla sua brutta casa nella periferia delle acciaierie, ai suoi banali genitori; un ovetto portato da lontano da uno sconosciuto e abbandonato in un povero nido di comuni passeri che ti sfamano e ti accudiscono come fossi il loro pulcino, “piume delle loro piume, sangue del loro sangue”, scrive Agata, riprendendo il quaderno e mettendoselo sulle gambe incrociate dopo aver appoggiato l’amata tazza con le fasi lunari sul pavimento, accanto al letto.
Ma i cuculi lo sentono che quello non è il loro nido, percepiscono che per loro esistevano altri celi in cui volare, un altro canto tutto loro da cinguettare, che la loro vita è una farsa, che loro non sono passeri e che il loro mondo è un regno lontano, oltre l’orizzonte, oltre il confine del mondo.
Quello che Agata non sa, mentre scrive ispirandosi al suo bel ragazzo, arrotolandosi i lunghi ricci tinti di rosso sulle dita, è che Milo non si è mai sentito così; Milo non ha mai pensato nemmeno per un secondo di essere speciale, Milo si è sempre vergognato senza saper come cambiare, Milo ha sempre avuto ciò che desiderava senza sentire di meritarlo.
Ma tutto questo Agata non lo sa ed è pensando a lui che si sdraia sul letto e fa scivolare la mano verso il ventre e poi giù, verso l’interno coscia e sotto le mutandine, mentre si masturba pensando a Milo, che non l’aveva mai nemmeno toccata con un dito, anche se lei glielo aveva chiesto.
Agata vortica nel suo momento speciale ansimando mentre la sua vecchia madre stende i panni nel caldo afoso della sera della periferia Italiana e suo padre, appena oltre il muro, guarda la partita con la birra in una mano e suo figlio maschio accanto.
Come comuni passeri.
I tetti romani profumano, al naso acuto di Milo, di rose, gesso rosso e muschio, e le tegole di coccio cinguettano sotto i suoi piedi.
La città è buia, la gente in strada ha acceso gli accendini per camminare e i ristorantino hanno acceso le candele, scusandosi con i clienti per l’inconveniente e assicurando che la corrente tornerà presto. I vicini continuano a cantare spensierati e Milo si sente felice mentre cammina, quasi vola, sui tetti caldi di Roma, saltando sul vuoto da un tetto all’altro assieme ai gatti ed alla luna.
Sente qualcosa frusciare in modo diverso sotto le dita dei piedi, guarda in basso e si accorge che stava per calpestare un nido. Un piccolo nido di pulcini e uova.
Milo si china ad osservarli.
Le uova hanno il guscio azzurro e coperto di macchie azzurre mentre i risultati di quella covata sono cosetti rosei con teste enormi sui piccoli corpi gracili, vede il blu degli grossi bulbi oculari sotto le palpebre semitrasparenti ed ancora chiuse e becchi cartilaginei e minuscoli.
Milo afferra le uova non ancora schiuse una per una con delicatezza fra le dita, e le butta giù dal tetto, in strada dove si spiaccicano con un rumore acquoso.
I pulcini superstiti pigolano disperatamente mentre Milo se ne va.
“Poveri piccoli cosini; volevo farlo io”, gracchia una voce sotto di lui.
Milo questa volta quasi cade dal tetto per la sorpresa e sbarra gli occhi chiari mentre guarda il bianchissimo sorriso del vagabondo brillare dall’ombra di un comignolo.
Che Milo sappia non ci sono modi per arrivare fin lassù dalla strada, se ce ne fossero tutti gli appartamenti di Trastevere sarebbero già stati svuotati.
“Come hai fatto a…” balbetta Milo, stupito.
“Non mi hai chiesto il nome. Io sono Luca, sono venuto a dirtelo, ho pensato dovessi saperlo che ho un nome.”
Milo pensa che, se è arrivato fino a lassù, quell’uomo potrebbe entrargli in casa dalla finestra del lucernario e se lo troverebbe ai piedi del letto, o seduto in cucina, o gli avrebbe tagliato la gola mentre dormiva.
Milo adesso ha paura, non è mai stato un uomo che teme per la sua vita o le sue cose e non ha mai compreso la gente terrorizzata dall’idea che un estraneo potesse svaligiare loro casa, corrompere la sacralità della loro intimità; ma ora un pochino capisce.
“Mi…mi hai inseguito fin quassù?” chiede, titubante.
Ma Luca scuote le spalle: “Stanotte è proprio bella vero? Ha messo su qualcosa di argenteo; credo quella veste sottile che gli regalai io. Ricordo che era raggiante quando la indossò la prima volta, solo per me; prima le avevano regalato soltanto canzoni capisci? Quei poveruomini solo quello potevano offrirle, ma io potevo donarle vesti d’argento e gioielli di rugiada. All’epoca era una sciocca, deliziosa bambina spensierata.”
Milo rimane guardingo mentre il vagabondo si siede su di un comignolo ad ammirare la loro comune amica, tirando su i piedi che, Milo nota, sono magri e scalzi come i suoi, e straordinariamente puliti.
Dopotutto quello che ha da dire è bello se si ha tempo per ascoltare e si abbandonano pudore e logica, pensa Milo, ma non è bello il modo in cui ora lo guarda.
“Hai da accendere?” gli chiede Luca.
Milo si infila automaticamente la mano in tasca, non vorrebbe e le dita gli tremano ma non può ritirarsi da quella conversazione senza fare un grande sforzo di volontà. Uno sforzo che non riesce a fare.
Non trova nulla.
Strano, pensa, è la prima volta che gli succede, lui non perde mai nulla e non dimentica mai nulla.
Luca tira fuori un accendino dalla tasca del gilet, il suo accendino, quello che usa per accendere i fornelli e la candela sul tavolino del salotto; Luca lo accende e la luce arancione gli infiamma il viso ed i capelli che ora Milo può notare sono del colore della ruggine, innaturali, spumosi e di un arancio dorato fiammeggiante.
Luca gli lancia l’accendino, deve averglielo rubato, strano anche questo, a Milo nessuno è mai riuscito a rubare nulla; Luca è il primo e non ricordava di esserglisi avvicinato tanto.
“Ti senti solo, Milo?”, chiede l’estraneo lanciandogli un’occhiata da sotto in su, un’occhiata piena di compassione, di dolcezza, e di astuzia.
“Vieni qui Milo, la nostra amica non vuole che tu stia male, non questa notte. Vieni qui, da me.” dice Luca, allargando le braccia e sorridendogli mellifluo.
La paura torna ad assalirlo e gli tremano le ginocchia mentre sente le intenzioni dello sconosciuto infrangerglisi addosso in ondate di marea ed appiccicarglisi sulla pelle; il desiderio è una trappola, lui si sente in una trappola, una trappola che si sta stringendo attorno al suo corpo.
“Vieni con me di tua volontà e non dovrai temere più nulla, Milo”, sussurra Luca; i suoi occhi brillano nel buio, le sue braccia si allungano.
Milo fa tre passi indietro da quelle lunghe braccia protese.
“No! No, grazie, davvero. Grazie ma credo tornerò a casa mia adesso; ti prego, ti prego non mi seguire!”, risponde con un brivido, alzando un po’ troppo la voce che gli stride in gola.
Milo non ha mai provato desideri sessuali verso nessuno; certo, fa sesso come tutti, ma non ha mai desiderato il corpo degli altri, ama farsi abbracciare, e coccolare e a volte farsi scopare, ma solo quando andava a lui, e a lui va molto raramente. Agata gli aveva detto che la sua è una forma di asessualità, ma adesso, verso lo sconosciuto prova un impulso angosciante, che lo spaventa, lo disgusta.
Milo scappa via per tetti come un topo d’appartamento.
Si gira a controllare che Luca non lo stia seguendo, guardando da sopra la spalla e senza fermarsi.
Qualcosa lo fa incespicare, dei movimenti veloci nella coda dell’occhio, qualcosa di troppo piccolo e veloce perché il suo cervello lo registri, ma forse lo ha fatto e ha visto delle piccole mani in quell’ombra, e facce, e occhi come capocchie di spillo. E sono tanti, uno stormo.
Uno stormo, uno sciame.
O una corte.
Fanno rumore di campanelli d’argento mentre volano, e corrono, e saltano, e ridono, giocando.
Milo corre, cercando di non cadere, di non scivolare, di volare più forte saltando oltre gli ostacoli, i comignoli, gli abbaini e le grondaie; Milo corre per mettersi in salvo, sapendo di essere inseguito.
Non ha mia avuto tanta paura in vita sua, sente che Luca è dietro di lui, lo sente come una presenza finché la sua voce, ad un passo dal suo orecchio sinistro, canta:
“Se sei d’aria lascia che la nebbia grigia ti avvolga
Se di terra lascia che la miniera scura ti accolga
Affonda il tuo anello, lascia che io ti colga
Cerca la sua sorgente, Milo che caracolla”
Le ginocchia diventano molli per il terrore e non lo sorreggono più.
Inciampa, cade, le tegole sotto di lui si spezzano con un botto, volando via da tutte le parti come uccelli spaventati; il dolore dei graffi e del colpo lo pervadono e gli fanno vibrare le ossa.
Qualcosa ride con la risata di un bambino.
Le tegole si sbeccano con uno schiocco, spezzandosi facendo rumore di ossa secche una dopo l’altra sotto il suo peso, e scivolano giù verso il precipizio buio, verso l’asfalto duro.
Milo comincia a scivolare mentre le tegole su cui sta sdraiato si staccano una dopo l’altra come squame di pesce e lo trasportano giù, verso il ciglio del tetto.
“No, no, NO!”, grida Milo, arrancando, ma ogni tegola che afferra fra le dita si sfila dall’abbraccio delle sorelle e lo segue giù, sempre più giù.
Milo cade, precipitando nel vuoto con un grido in un lungo volo nel buio, nel silenzio.
Milo si schianta al suolo con così tanto dolore da bloccargli il respiro.
Qualcosa di caldo, umido ed appiccicoso si spande lentamente, liquido, sull’asfalto, incollandolo al suolo.
La luce torna, esplodendo nel quartiere riempiendo le finestre sopra di lui ed il lampione che ha colpito ondeggia nella notte come il corpo di un impiccato, illuminandolo col suo fascio ora sì, ora no.
“Qualcuno è caduto dal tetto!”
“Cristo santo quanto sangue! Chiama l’ambulanza!”
“Un suicida?”
“Oddio, ma è Milo!”
Si lanciano richiami le voci sopra di lui dalle finestre illuminate, le ante si aprono, gente preoccupata guarda di sotto.
Milo socchiude gli occhi i e vede la luna che lo osserva da lassù, e Luca, che lo osserva dal buio, con un sorriso.
“N…no…”, boccheggia Milo.
“Non.. non farmi male… ti… ti prego!” ma non riesce a muoversi, non riesce nemmeno a strisciare.
“Eccoti qui”, sussurra Luca, sorridendo dolcemente e chinandosi su di lui, un sorriso così dolce da perdercisi, da annegarci.
“Milo, il mio bambino, il mio piccolo, dolce, perduto bambino. È passato tanto, tanto tempo, ma ti sono venuto a prendere, non sei contento? Vieni, ti portiamo a casa dove non soffrirai mai, non morirai mai.”
“No non voglio… non voglio… andare… via…io non voglio andare via… non riportarmi a… casa”, uggiola Milo, il dolore lo pervade completamente, delira mentre sente le carezze fredde della luna sulla pelle.
Tutto diventa nero, e rosso, e doloroso mentre Luca gli accarezza i capelli e gli bacia la fronte, paternamente.
Quando l’ambulanza arriverà non troverà Milo; i vicini di casa, scesi a soccorrerlo, non troveranno nulla riverso nel suo sangue, Gigi non rivedrà mai più il suo padrone, Agata non verrà mai toccata come desiderava; perché la gente di Milo quello che desidera lo ottiene sempre, nessuno può rubare loro, e sopratutto non perdono mai, mai, nulla.

Fine.