Racconti umoristici

Streghe di carta

Il cielo minaccia pioggia da ore quando Vitto trova il coraggio di aprire la portiera e uscire.

Appena mette i piedi sull’asfalto un senso di nausea e di vertigine lo invade fin nel profondo delle ossa e rabbrividisce.

Forse è disgusto, forse è paura, forse è febbre.

Prende un bel respiro nell’aria fresca e umida; l’abitacolo si è riempito d’aria e solo ora si rende conto di quanto li dentro puzzasse di moquette bagnata, sudore umano, fumo stantio, avanzi di cibo e cane bagnato. Qualcosa gli preme sulla schiena, fra le scapole. Qualcosa di duro, caldo e che guaisce.

Vitto sorride stancamente, mormorando: “Sì Bruno, ci sono, ora andiamo”. Si alza, il cane gli zoppica subito accanto, la lingua ciondoloni e la coda un tempo vaporosa che sventaglia l’aria.

Foglie secche vengono sospinte dal vento sotto la suola dei suoi scarponcini consunti, crepitano rumorosamente, quasi gridando di dolore.

Guarda il cielo ricolmo di nubi sopra di loro e si stringe nella giacca di pelle di suo padre, l’unica cosa che ha fato in tempo a portarsi via da casa prima che la perdesse per sempre, è l’ora del tramonto; il sole dovrebbe spuntare da li a poco all’orizzonte, fra le nubi e il profilo della città bella e decadente che divide lui e Bruno dal mare e dal suo golfo.

Il golfo di cui Vitto può sentire arrivare il profumo di mare, trasportato dal frizzante vento autunnale.

Sa di sale il vento, ma anche di freddo e di buio, di asfalto e di qualcosa di acro e tossico che brucia, lontano. O forse non così lontano.

L’insegna di plastica del bar di fronte a loro brilla, rassicurante, di un bianco lattiginoso; goffamente attraversano la strada.

I vetri della porta sono decorati dalle vetrofanie in plastica; una casa infestata colorata di viola e nero, piccoli fantasmi candidi e per nulla spaventosi, la luna piena, uno scheletro.

Odorano ancora di nuovo, devono esser state appiccicate da poco.

Un cumulo di zucche fresche, verdi e arancioni, ai piedi di una scopa di saggina con appesa un strega di cartapesta stanno sotto il bancone di radica, un bancone accogliente ma che non è ne nuovo ne lussuoso.

I tavolini dispersi nel piccolo locale, sotto mensole ricolme di vecchie bottiglie di liquore e poster del Napoli, sono ancora ingombri degli aperitivi del pomeriggio; Vitto nota piattini di pizzette ancora mezzi pieni; forte come un pugno lo stomaco gli da una stretta.

Appena si appoggia al bancone col gomito la strega sghignazza e gli occhi gli si illuminano di arancione, Bruno abbaia richiamando l’attenzione del barista che stava svuotando la lavastoviglie, una piccola macchina rumorosa che getta sbuffi di vapore rovente.

“Buono amico, non è nulla, è finta”, lo rassicura Vitto, carezzandogli la testa.

Il barista appoggia entrambe le grosse mani screpolate al bancone e chiede: “Vi stavo aspettando. Dimmi cumpà”

“Hum… un caffè sospeso c’è mica?”, risponde Vitto.

Se li stava aspettando vuol dire che lo ha notato, ha notato la sua macchina parcheggiata dall’altra parte della strada da tutto il giorno, da tutta la settimane, e ha notato lui ed il cane.

Ha notato che ci dormono dentro.

Quella puzza di bruciato li ha seguiti fin dentro il locale, Vitto si vergogna come se la avesse causata lui.

Il caffè viene fatto, la macchinetta vibra e ronza, la tazzina tintinna sulla ceramica del piattino, un suono rassicurante che ora gli pare un lusso, poi il profumo ed il calore riportano Vitto nel mondo dei vivi.

Il barista, un omone che potrebbe avere l’età di suo padre e dovrebbe essere ormai in pensione, lo guarda con le braccia incrociate sul petto e l’espressione paterna.

“C’è qualcosa che posso fare d’altro per te guagliò’? Lo vuoi un panino?”, gli chiede.

Vitto si irrigidisce e poggia la tazzina sul piattino. Tintinna. L’ha sporcata solo toccandola, anche se l’ha presa solo con la punta delle dita.

“No… no grazie.”, risponde con voce roca, l’uomo si protende sul bancone e insiste: “Guarda che è offerto, se vuoi c’è anche qualcosa per lui”, aggiunge indicando Bruno che lo guarda e scodinzola.

Vitto si sfrega gli occhi e si passa la mano sulle guance ispide di barba di diversi gironi. Rumore di carta vecchia che si sgretola sotto le dita.

La mano gli puzza, tutto in lui puzza.

E poi c’è quell’odore.

La strega di cartapesta sghignazza e Vitto sente come se quel giocattolo di merda lo prendesse in giro.

Si irrigidisce. “No, no grazie. Non ne ho bisogno.”

L’uomo del bancone si ritrae, sembra deluso; la porta si apre tintinnando rumorosamente portando dalla strada quattro faccette dipinte e sorridenti che strillano: “Signor Gennaro! Dolcetto o scherzetto?!”

Vitto si gira verso i bambini, un gruppo di scugnizzi di dieci anni; appena si accorgono di lui sbarrano gli occhi, Vitto crede che stiano per scappare, ma i marmocchi non scappano. Una maschera da grandi magazzini di Iron Man gli chiede in napoletano stretto: “Bello il tuo costume! Sembri morto per davvero! E anche il cane!”

Vitto non fa in tempo a rispondere che quello non è un costume che il barista si è messo fra lui ed i bambini, ma il più grande, quello vestito da Iron Man, deve aver visto qualcosa nei suoi occhi perché ha fatto un passo indietro.

Bruno ringhia e la puzza di bruciato si fa più intensa.

Gennaro distribuisce frettolosamente una generosa manciata di caramelle a tutti loro sorridendo, ma Vitto nota che gli trema la mano. “Dolcetti, dolcetti, ora andate via scugnizzi, andate ai baracconi in fondo alla strada va bene?” Ubbidiscono, sciamando via, la porta sta per richiudersi quando Vitto afferra la maniglia e la tira a se.

Ringrazia: “Grazie per il caffè, buona serata.”

“A te cumpà”, risponde l’uomo, ma la voce gli trema.

Vitto e Bruno se ne tornano in strada, portando con loro una ventata di fumo acre, il sole compare un istante all’orizzonte illuminando loro e la strada di un bagliore rosso prima di scomparire, fagocitato dalla notte autunnale.

La porta si chiude.

Gennaro riprende a respirare e se ne torna dietro al bancone, a rimettere sulle mensole i bicchieri usciti di fresco dalla lavastoviglie.

“Se ne è andato”, dice al locale vuoto.

La gente, tre avventori in tutto, esce dal retro del bar, spostando la tendina di perline e tornando ai tavolini, rimettendosi a bere in silenzio con mano tremante i bicchieri di vino. Il vocione potente di Gennaro fa rovesciare alcune gocce sui tavolini dai bicchieri: “Ora ci credete che non sono un vecchio pazzo che si diverte a raccontare storie di fantasmi?!”

Tutti fanno silenziosi cenno di sì, ora gli credono.

“Madò…”, commenta una donna con una smorfia di disgusto: “Ha lasciato dietro di se un tanfo infernale.” Gennaro la guarda in tralice, lei capisce: “Scusa sai, non volevo dire… cioè, lo so che non è mica colpa sua, povera anima… e quel povero cane…”, contrita, si fa il segno della croce, rivolta al quadro del Cristo che li guarda dalla parete bianca sopra di loro.

Gennaro annuisce e lancia un’occhiata alla pozza di oscurità dall’altra parte della strada, allo scheletro di una macchina abbandonata proprio davanti al suo bar.

L’asfalto è sciolto e bituminoso sotto le ruote, la gomma degli pneumatici è liquefatta ed incolla quel poco che resta della vettura alla strada, sotto ed attorno è ingombro di foglie secche, accumulate lì negli anni, ma non di spazzatura, perché in quel quartiere di periferia dimenticato da Dio e dagli uomini il rispetto per la morte è ancora una cosa sacra.

Concettina segue il suo sguardo e commenta, borbottando: “È il terzo anniversario dal gesto e nessuno si è ancora degnato di venirla a portare via.” Mette una mano sul braccio villoso del marito e chiede, con dolcezza: “Ce l’hai fatta Gennà?”, ma l’uomo scuote il testone: “No, non ce l’ho fatta nemmeno quest’anno a sapere il nome.”

Concettina rabbrividisce: “Quando sono entrati quei monelli ho avuto il terrore che li ammazzasse, gli sono venuti gli occhi di fuoco, brillavano come se avesse ancora il fuoco nel cervello! Ed il cane metteva ancora più paura di lui. E hai riconosciuto il più grande? Quello che gli ha detto… madonna santa”, Concettina non ce la fa a finire la frase e si sventola gli occhi umidi per non far scendere le lacrime.

L’uomo aveva i vestiti incollati al corpo, gli si erano sciolti addosso, la carne si era liquefatta in alcuni punti, un lato della guancia destra, un ginocchio che si vedeva dai jeans strappati; i capelli, che una volta dovevano essere biondi e belli, erano una matassa semi carbonizzata, e della punta delle dita restava solo l’osso, annerito come carboncino. Il cane era rimasto senza una zampa ed il pelo era stato arso via.

Gennaro ha preso in mano la tazzina sporca di cenere, la tiene fra la punta delle dita come una prova scientifica; guarda i suoi amici di una vita oltre il bancone, seduti in silenzio ai loro tavolini; incrocia lo sguardo col più vecchio che prende coraggio, si leva il sigaro di bocca e si inumidisce le labbra: “Quello vestito da super eroe era il fratellino di Ciro; anche io ho avuto paura che il morto lo capisse e che lo facesse sbranare dal cane. Se si volesse vendicare io lo capirei. Ciro è ‘n omme ‘e mmerda.”

Concetta trasale: “Tonino cheddici!”, ma Tonino le zittisce con un gesto della mano, offeso dalla codardia di quella femmina: “Hanno dato fuoco per divertirsi a un pover’uomo senza più nulla che viveva nella sua macchina! Non mi frega ‘nu caz di loro! E tu Rino!” Sentitosi chiamare col nomignolo Gennaro gira lentamente il testone verso di lui, abbandonando i suoi pensieri.

Tonino gli indica la porta col sigaro: “Io il prossimo anno lo inviterei qui nel bar Ciro, la sera di Ognissanti. Che venga qui ha vedere di persona tutto il male che ha fatto quella notte, lui e quegli omme ‘e sfaccimma che si porta dietro.”

Si guarda attorno, silenziosamente gli altri fanno cenno di sì, Tonino aggiunge: “I morti non vanno solo ricordati Gennarino, quando si può vanno anche salvati.”

S’alza e si avvicina al bancone, mette nel piattino dei resti una moneta da un euro.

L’amico prende la moneta, se la rigira fra le dita e la mette nel barattolo dei caffè sospesi, poi gli annuisce con aria cupa. Gennaro mormora: “Questa servirà per il prossimo anno. E che Dio ci assista.”

 

Fine

 

Pubblicato il 25 Dicembre 2023 nell’antologia: “Halloween all’italiana” di Letteraturahorror.it