Racconti umoristici

Perduti

Quanti di noi hanno vissuto un’esperienza paranormale nella loro vita?

Io alcune.

Non molte a dire il vero, ma fra quelle ce ne è una che mi è rimasta impressa e che è stata molto importante per me, emozionante, indimenticabile, spaventosa.

Questo, fra tutti i miei racconti, è l’unico ispirato a fatti reali.

Ho raccontato in tutti questi anni di impressioni, di sogni, di ispirazioni, di cose che sentivo profondamente mie e che mi hanno formato come persona, ma mai di esperienze; sopratutto mai di esperienze reali.

Ho provato molte volte a formare gruppi di pochi intimi per esplorare casa abbandonate, alberghi, luoghi inquietanti magari famosi per essere infestati o malevoli ma sempre senza successo, tutto quello che mi è successo di sovrannaturale nella mia vita è sempre capitato per caso, mai cercato, sempre improvvisato.

Questa è la storia preferita del mio migliore amico, quella che mi ha chiesto di raccontare già tre volte e che tutte le volte gli fa rizzare i capelli in testa.

Questa è la storia di un viaggio e di una scorciatoia.

Un classico.

Sono passati cinque anni da allora; io ed il mio allora ragazzo, ora mio marito, tornavamo da una vacanza di alcuni giorni dalla casa di un carissimo amico. Era notte tarda quando arrivammo lì. Eravamo partiti poco prima del tramonto per goderci la struggente bellezza della campagna italiana in tardo autunno: i cieli tersi, il sole che bruciava tutto; abbiamo sempre amato i lunghi viaggi e nessuno dei due si è mai tirato indietro quando c’era da guidare al buio.

Le autostrade buie in mezzo alla campagna, la nebbia autunnale per i campi, il buio bucato di tanto in tanto da qualche casolare, da una strada di campagna nebbiosa illuminata dai lampioni, una sosta all’autogrill deserto. Per chi ama le atmosfere notturne e la solitudine tutto questo è casa, ci fa sentire al sicuro, a nostro agio.

Era autunno inoltrato, ottobre, come adesso.

La strada era buia e lunga ed eravamo stanchi.

L’autostrada era stranamente deserta e umida di pioggia e noi sbagliammo stupidamente strada. Uscimmo al casello sbagliato, almeno un centinaio di chilometri prima.

All’epoca non eravamo ancora molto pratici delle autostrade avevamo entrambi la patente da (relativamente) poco tempo e di tanto in tanto ci confondevamo, sbagliavamo un’uscita o al contrario la mancavamo e cose così; non era ancora l’epoca dei navigatori su cellulare e non c’era nulla ad aiutarci se non la nostra memoria. Succedeva.

Così sbagliammo strada e finimmo fuori dall’autostrada, lontano, lontanissimo e senza alcuna possibilità di tornare indietro.

Non avevamo linea e quindi nessun aiuto, nemmeno una cartina autostradali (che io volevo tanto comprare ma che finivo sempre per dimenticare di acquistare all’autogrill) e così proseguimmo nella convinzione che avremmo presto trovato una strada che ci avrebbe riportato in autostrada, magari passando le montagne avremmo accorciato la strada e ci saremmo trovati più vicini alla città.

Insomma ci illudevamo di non esserci persi.

Ci inerpicammo fra le montagne buie percorrendo una strada disconnessa nel bosco, tutta curve e salite e nemmeno un cartello che indicasse un nome di paese o una svolta, nulla.

La strada era una sola e si inerpicava in mezzo ai monti senza darci mai la possibilità di fare inversione e tornare indietro, ormai eravamo troppo avanti e temevamo di finire la benzina; prima o poi saremmo arrivati da qualche parte!

Abbiamo sempre avuto la passione per le auto vecchie e grosse e il semiasse faticava con tutte quelle curve a gomito e le buche profonde. Sembrava che quella strada fosse stata dimenticata da anni e che nessuno se ne fosse più occupato da tanto tempo: i bordi dell’asfalto erano frastagliati e mangiati dalla pioggia, la linea bianca era appena visibile e da entrambi i lati solo foresta senza nemmeno un gard rail a fermare una caduta, semmai ce ne fosse stata una.

Arrancavamo con la sola fioca luce dei fanali a farci da guida e non vedevamo nulla se non alberi e qualche piccolo animale che ci tagliava la strada.

Poi tutto d’un tratto nemmeno quelli e delle luci fra i rami spogli.

Dietro una curva una lunga strada perfettamente dritta era comparsa di fronte a noi senza nessun preavviso; un altipiano in cima ad una montagna con un unica striscia di asfalto a dividere a metà un paese di montagna.

La lunga strada innaturalmente dritta e pianeggiante era illuminata malamente da una fila di lampioni a lato strada che rovesciava pozze di luce arancione sull’asfalto nero.

Lampioni alti e neri, sottili come steli di paglia.

Ci addentrammo sulla strada lentamente.

Alla nostra sinistra il nulla, forse campi o arrugginiti giardinetti per bambini pieni di enormi castagni e nebbia, alla nostra destra una lunga, opaca fila di case.

Le facciate, strette le une alle altre come infreddolite, davano direttamente sulla strada, nude, scoperte, protette dal niente, se c’era almeno un marciapiede era troppo vecchio e rovinato per notarlo e i portoni di ingresso erano semplici rettangoli neri che si aprivano sulla strada deserta e non una luce arrivava dalle finestre.

Non c’erano vetrine di negozi, ne bar, osterie, nulla, solo questa unica lunga linea di vecchie case di tre piani che si affacciavano sul niente.

I tetti a punta in ardesia, le facciate scrostate.

Percorremmo la strada lentamente e fu solo per un attimo ma vidi quattro vecchie signore sedute in circolo di fronte a un portone fissarci. La luce era poca ed era difficile notarle ma la cosa che mi colpì di più era che erano completamente al buio, solo la fioca luce dei lampioni le illuminava appena, quattro sagome chiare sul rettangolo scuro del portone. Come facevano a vedersi l’un l’altra? E non faceva freddo per stare sedute in piena notte al buio?

Vidi i loro visi solo per un istante e non erano stupite, ne incuriosite, ne allegre. Nulla, quelle vecchie non provavano assolutamente nulla; sui loro visi pallidi, rugosi e vuoti gli occhi brillavano come quelli di piccoli animali che ci guardassero dal fondo delle proprie tane.

Girai il viso verso Matteo che guidava, anche lui le aveva viste, per un istante solo e con la coda dell’occhio ma gli era bastato per decidere di non fermarsi a chiedere informazioni.

Mio marito è un uomo tutt’altro che codardo, lo potrei giurare di fronte a Dio. Affronta ciò che lo spaventa combattendolo e cercando di distruggerlo ma non era la solita rabbia nel provare paura quella che gli vidi in viso, ma sgomento. Matteo era terreo in viso.

Stavo per dirgli di non aver paura, o di quanto ne avessi io, quando entrambi ci girammo a guardare la strada, attratti da uno strano movimento davanti a noi.

Qualcosa era apparso sulla strada, attraversava la striscia di asfalto nero nel buio che si creava nella distanza fra un lampione e l’altro.

Non era vicino, non rischiammo nessun incidente, parecchie decine di metri ci separavano da lui ma la sua forma, la sua altezza, la lunghezza degli arti, una sagoma alta almeno due metri minimo si stagliava sulla luce arancione e stava, lentamente, attraversando la strada lasciando ciondolare le braccia. Sparì nel buio delle case come un’ombra viene assorbita dal buio.

Matteo accelerò.

Come era comparso il paesino sparì dietro di noi e la strada riprese ad essere assediata dai rami spogli della foresta, le curve tornarono senza alcun preavviso e la macchina sbandò su un cumulo di foglie bagnate; a pochi centimetri da me, mentre l’auto slittava sull’asfalto fradicio e putrido, dal ciglio della strada una pietra piccola e tozza, verticale, tagliata come le pietre tombali era stata illuminata per un istante dai nostri fanali.

Sopra una foto di ragazzo che non sorrideva, vecchia, sbiadita, un lumino rosso acceso.

Come una tomba.

Una tomba sul ciglio della strada con incise le date di nascita, di morte e il nome. Soltanto il nome in verità.

Quella fu l’ultima cosa che vidi prima che il buio ci assalisse e tentasse di prenderci, spingendo sui vetri e sul parabrezza, famelico ed eccitato.

Fuggimmo.

“Dove siamo finiti?”

“Non lo so”

Non trovammo mai quel posto sulle mappe, non avevamo nomi e ricordavamo poco della strada fatta per arrivarci.

So che state pensando che è una storia inventata, che a voler esser gentili mi sono fatta suggestionare dal buio, dalla stanchezza e dalla pura di non riuscire a tornare a casa.

Ed è vero, all’epoca avevo paura di tante cose, cose molto più tangibili di quello che vi ho appena raccontato; temevo la povertà, temevo le persone, la solitudine, i debiti e tutto quello a cui dovevamo fare fronte in quegli anni freddi e difficili.

Ci eravamo persi e non ritrovavamo più la via.

All’epoca avevo paura delle porte che sbattevano perché nella nostra vecchia casa la padrona aveva la schifosa abitudine di entrarci in casa senza preavviso. Ma vi giuro che quello che incontrammo quella notte era altrettanto pericoloso, altrettanto opprimente della povertà e delle difficoltà personali e che provò a venire via con noi per rovinare ancora di più le nostre vite unite solo dall’incrollabile amore l’uno per l’altra e dalla fiducia che il giorno dopo sarebbe stato migliore.

Ora quel giorno luminoso è arrivato, da qualche anno ormai.

Non ho più paura delle porte che sbattono e ora so che anche se rimanessimo poveri davvero sapremmo cavarcela perché giorno dopo giorno, prova dopo prova, abbiamo dimostrato a noi stessi che tutti i mali sono sconfiggibili.

Tutti.

Incluso quello che cercò di entrarci in macchina quella notte.