La maschera di Innsmouth cap. IV
La Maschera di Innsmouth
Fu in mare che ripresero parzialmente conoscenza perché una voce li chiamava, una voce che ormai conoscevano; una voce saggia e imperiosa, ma piena di speranza.
Papa Legba parlò loro con sicurezza: non lasciatevi ingannare, disse loro, non lasciate che gli Antichi abbiano la meglio su di voi con le loro visioni i loro trucchi e i loro inganni.
Landa folgorata non è, mai è stata e mai sarà; voi avete distrutto il colore, voi avete messo i Gardner al sicuro, il colore venuto dallo spazio non è mai uscito dal suo guscio di catrame e cemento, voi avete vinto, voi avete sconfitto gli antichi, loro hanno perso, non voi.
Tenetelo bene a mente.
Aprirono gli occhi su di una spiaggia, una spiaggia nera e invernale su di un mare burrascoso e scuro; strane facce li scrutavano, facce che poco avevano di umano.
Quando si ripresero completamente erano ormai stati portati in una decadente stanza di albergo. I muri scrostati dall’umidità, un vecchio giornale (che recava, con grande sollievo la data 1932) vecchi letti decadenti e una strana sconosciuta città, grigia e fumosa, oltre i vetri crepati delle finestre sporche.
Quella era Innsmouth, spiegò lor il locandiere, un vecchio dalla voce cavernosa e dalle poche parole che portò loro un cena a base di un’insipida zuppa di pesce e pane nero; una città marittima ora semi abbandonata nel New England a poche miglia dalla più invitante Arkham. I fumi neri che vedevano erano quelli dell’unica ditta rimasta aperta in città, la raffineria Marsh.
Il carrozzone di Lemuel era al sicuro assieme all’automobile nel lurido cortile sottostante alla locanda mentre la sconosciuta e maleodorante Innsmouth si spiegava di fronte ai loro occhi increduli. Jeremy dormiva ancora nel suo letto e Lemuel non ebbe cuore ne forza per svegliarlo, aveva già Teresa di cui occuparsi. Teresa rimase a lungo in stato catatonico a contare ossessivamente le macchie di marciume sul soffitto della piccola stamberga.
Lemuel, solo per la prima volta dall’inizio del loro viaggio, cercò di riportare in salute mentale la ragazza senza successo.
Teresa gli aveva chiesto, tempo prima, dai Gardner, cosa si dovesse fare per divenire maghi o streghe; Lemuel glielo aveva detto; decenni di studio e dedizione e fede costante potevano portare a ottimi risultati ma in un lasso di tempo tutt’altro che ragionevole, d’altronde i potenti stregoni del passato che popolavano le grandi leggende della verde terra di Teresa O’Neil avevano lasciando tramandato che per divenire strega e profetessa delle terre d’Irlanda si necessitava prima di subire il tormento di tre ferite: la ferita nel corpo, la ferita nell’animo e la ferita della mente; in altre parole per avvicinarsi alle forze occulte accettandone i sortilegi bisognava lasciare ogni contatto con la nuda realtà umana sopravvivendo ad un cocente dolore del fisico, una straziante perdita del cuore e divenire pazzi.
Teresa O’Neil aveva vissuto mesi di sofferenza in un letto durante la guerra vissuta in prima linea come infermiera, ricordava poi ancora bene lo strazio e la disperazione di quel sangue, quel fango e la morte che la circondava ovunque, ma Teresa non era mai stata pazza. Bene, ora lo era.
D’altronde ora serviva qualcosa per riportarla indietro e non lasciarla nelle mani malsane della demenza.
Così Lemuel prese l’automobile e si diresse senza indugio alcuno verso Arkham e la tenuta dei Gardner. Forse vedere con i propri occhi per Teresa che Landa folgorata non esisteva e che, con un po’ di fortuna, i vecchi amici erano ancora in vita ed in salute avrebbero strappato la giovane dall’irrazionalità della disperazione.
Intanto Jeremy Jonathan Freeman si svegliò nel piccolo letto della locanda. Venne presto informato che i suoi amici avevano lasciato detto che sarebbero tornati verso sera e così cominciò una solitaria peregrinazione per l’insana Innsmouth fotografandone le belle ma abbandonate chiese e i grandi viali derelitti.
La gente di quella città semi abbandonata aveva un aspetto malsano e tutt’altro che rassicurante, nessuno sembrava lavorare e i giovani che bighellonavano in giro per i larghi viali si mostrarono pigramente interessati a lui; i larghi occhi acquosi e vuoti e la pelle dall’aspetto grumoso disgustarono Jeremy ma non lo spaventarono; tutt’altro lo incuriosirono. Furono le strane celebrazioni che si svolgevano in una delle agghindate chiese che colpirono la sua attenzione più di tutto. Un uomo basso e con addosso pomposi paramenti religiosi color carminio innalzava un curioso scettro al soffitto ornato a cupole della chiesa; Jeremy poteva vederlo a stento dal di fuori della cattedrale ma vedeva bene l’alta e grottesca mitra cerimoniale che portava in capo e sentì gli insalubri canti gorgoglianti in una lingua che mai aveva sentito ad una divinità di cui non vedeva raffigurazioni. Non visto fece quello che un giornalista sa fare meglio, scattò foto, molte foto.
Nel frattempo, ormai verso sera, papa Lemuel e Teresa tornavano dalle pianure e dai boschi della vicina Arkham. Teresa pareva di molto rincuorata, aveva ripreso a parlare ed a sorridere anche se aveva delle lacune su cosa fosse successo nelle ultime ore. La discendenza dei Gardner non era stata spazzata via dal colore e da landa folgorata, li avevano trovati, felici, anziani ed in salute, nella vecchia ma amata fattoria di famiglia.
Il piccolo Merwin aveva ormai compiuto i cinquanta anni, il fratello viveva con lui, la dolce moglie e i due figli piccoli la cui bambina era stata chiamata col nome di Teresa, per non dimenticare mai i loro salvatori. Erano stati accolti con stupore e molto affetto e tanto amore aveva fatto bene al cuore stanco e provato di Teresa O’Neil che ne era venuta via con molti sorrisi ed un’abbondante cesto di vettovaglie.
Anche molte raccomandazioni erano state fatte, non fidarsi della gente degenerata di Innsmout, non erano sani ne socialmente accettabili e più di una persona negli anni era sparita fra le squallide strade di quella strana città.
Arrivarono che era ormai buio, ricordando le parole degli amici decidettero di non soggiornare più all’insana locanda, dove potevano essere dei facili bersagli, e trascinarono il carrozzone lontano nel cortile di una delle tante chiese abbandonate.
Lì papa Lemuel ebbe un’idea; il numero di luoghi di culto abbandonati a se stessi non era certo un buon auspicio ma forse una religione antica di antichi dei umani sarebbe stata bene così vicino ad un’estesa palude ed al mare.
Così Papa Lemuel fece i dovuti gesti e le dovute preghiere, asperse polveri profumate e colorate all’interno della chiesa, accese candele e piantò il veve di Papa Legba sull’altare abbandonato di fronte alla croce di Cristo.
Dovettero aspettare, ma le ghette bianche, al fine, giunsero dal buio, così come il bastone ed il cilindro e Papa Legba fece il suo ingresso nella sua nuova chiesa. Salutò gli ospiti e si accomodò di fronte a loro.
Zadock Allen si svegliò nella sua lurida stanzetta nel cuore della notte. Una voce lontana lo chiamava. Molte voci negli anni avevano provato a condurlo dove non voleva o dove la sua coscienza non gli consentiva di andare; ma questa era diversa da tutte le altre, non voleva trascinarlo nelle nere e torbide acque della baia di Innsmouth verso profondità che avrebbero rapito per sempre quello che rimaneva della sua mente, della sua anima e della sua vita; questa voce veniva dall’interno della città, e lo chiamava a sé.
Zadock Allen tirò su le stanche e vecchie ossa dal lettino sdrucito del ricovero e si calò dalla finestra.
Quando trovò la chiesa abbandonata in una laterale di Federal Street vi entrò zoppicando e vergognandosi dei luridi cenci che portava addosso ma la giovane dai capelli neri e l’uomo nero che lo accolsero parevano così gentili e lontani dal giudicarlo che ben presto Zadock, aiutato dai liquori e dalle ottime vettovaglie così saporite rispetto al cibo insipido di Innsmouth che i suoi ospiti gli offrirono, prese parlare, e non si fermò finché non fu troppo stanco per continuare.
Il vecchio cadde addormentato sulla panca di legno con un lieve sorriso stampato sull’incartapecorita faccia, la bocca sporca di cibo come un bimbo di marmellata.
Lemuel ritirò la mano con l’incantesimo dalla mente del povero vecchio e sospirò, incerto sul da farsi.
Legba gli aveva suggerito di chiamare e parlare con l’unica anima pura della città e se quello che il vecchio pazzo spaventato aveva detto era vero allora non avevano contro qualcosa di semplice come il colore venuto dallo spazio o gli orrori di Hexam Priory, avevano contro un’intera città.
Innsmouth, aveva raccontato loro Zadock in una valanga delirante di parole, non era sempre stata decadente come ora la vedevano, era una fiorente città moderna; erano stati i primi ad avere una centrale elettrica alimentata dalla cascata in tutto lo stato, l’economia era fiorente, ma evidentemente la fortuna non era destinata a rimanere sulla città.
Negli anni il pesce aveva cominciato a scarseggiare fuori dalla baia, il mare burrascoso si era portato via molte vite di marinai e le grandi fortune delle grandi e nobili famiglie avevano cominciato a scemare miseramente; una sola delle famiglie era rimasta grande e potente fra gli Ankham e i Tipswich, gli Obed, con i loro tre galeoni transoceanici.
Il capitano Obden Marsh portava avanti la gloria e la ricchezza della sua famiglia con lunghi viaggi nelle più remote isole del pacifico e dell’atlantico e tornava sempre con grandi quantità di oro sotto forma di collane e alte mitre dalle decorazioni bizzarre e ripugnanti ma splendide nella manifattura.
Il capitano Marsh era famoso per la severità con cui trattava i suoi uomini e il malato desiderio di potere e presto, alla città in miseria e alla fame, cominciò a fare discorsi blasfemi su quanto poco il loro venerato e temuto Dio aiutasse i bisognosi e gli affamati nonostante il numero di chiese innalzate in suo nome e le preghiere che si levavano dal cielo. Marsh derideva quella divinità muta cieca e sorda e cominciò a blandire la comunità con racconti di altri dei più benevoli e generosi oltre oceano. Mentre la città doveva rinunciare alle proprie industrie di scatolame che chiudevano senza tregua lanciando intere famiglie sul lastrico, Marsh apriva la prima raffineria d’oro dello stato e dava lavoro a quelle stesse famiglie che furono le prime a cedere alle melliflue e promesse del capitano lasciando la umile ma sacra via della chiesa per altre oscure e blasfeme cerimonie.
Zadock ripetè fra le lacrime che lui non aveva ceduto a quelle lusinghe e, benché non avesse più potuto esercitare, negli anni era sempre rimasto fedele alla severa religione dei propri padri mentre amici e parenti attorno a lui abbandonavano la fede per seguire quella stessa via che aveva portato tanta abbondanza e prosperità al padrone della città. In abbondanza tornò il pesce, spinto nella baia da quegli abitatori del profondo che fecero sparire la fame, Marsh però ora prometteva altre cose più importanti e durature; prometteva l’immortalità.
A quel punto cominciarono le sparizioni e poi le lente ma inesorabili trasformazioni.
Uomini pesce, ecco in cosa il culto delle isole lontane aveva trasformato la cittadinanza di Innsmouth; tutto era cominciato con i sacrifici al nuovo culto che avevano richiamato gli dei delle remote isole su dall’oceano fin nella baia e su quello che era nominato lo scoglio del diavolo; un aspro scoglio glabro che si innalzava nella baia da chissà quale gola sottomarina che nessun apneista era mai riuscito a percorrere fino in fondo.
Così dall’oceano erano sorti gli uomini pesce, i dagoniani, creature orride a vedersi con grosse bocce ed enormi occhi piatti. Marsh istigò la popolazione ad accettare quegli abomini fra di loro che portavano in dono le strane decorazioni auree che il capitano Obden aveva riportato in quegli anni e rifuso in lucidi lingotti d’oro, poi li aveva convinto ad accoppiarsi con loro. Ne erano nati esseri in tutto e del tutto umani all’inizio ma che avevano cominciato a mutare alla fine della fanciullezza rassomigliando sempre di più all’orrido genitore abissale. Quando un mezzo dagoniano completava la trasformazione abbandonava la terraferma per inabissarsi e raggiungere i suoi simili nelle profondità marine nella antica e dorata R’lyeh dove gli abitatori del profondo vivevano per sempre.
Un’intera città.
Un’intera città si mostri.
Ma adesso non avevano contro l’intera città, ora erano al sicuro e cerano delle questioni importanti da risolvere prima di venir catapultati nella folle corsa contro gli Antichi.
Lemuel aveva pensato a lungo alla situazione di Teresa, una ragazza irlandese che si interessa di stregoneria per portare a termine la lotta contro quella progenie stellare; una strega poteva essere incredibilmente utile in quel viaggio e i sangue irlandese della ragazza sicuramente possedeva qualche goccia della magia di quelle terre antiche.
Ma la strada per divenire sacerdotessa degli antichi dei pagani d’Irlanda era dura e rischiosa; ora poteva essere il momento giusto per rompere tutte le barriere della mente di Teresa e aprire la sua anima all’universo, la ferita della mente era evidente, bisognava solo spingerla giù dal precipizio e fornirle una corda per risalire.
Forse Lemeuel aveva trovato una soluzione.
Non era pratico delle divinità irlandesi, ma conosceva il nome di un dio nato fata e divenuto Re d’Irlanda nei tempi della leggenda; Mad Sweeney.
Mad Sweeney era pazzo, era impazzito in epoche remote per colpa di una qualche folle guerra che gli aveva portato via la ragione, da quello che ne sapeva Lemuel un irlandese Re pazzo era l’unica entità che poteva tenere all’anima di un devoto credente come Teresa abbastanza da prenderla per mano in quella caduta e restituirla al mondo.
E poi c’era un secondo motivo.
Papa Lemuel aveva deciso di divenire immortale; o meglio, aveva deciso di prolungare la sua vita abbastanza da poter, di persona, proteggere i suoi fedeli da quell’entità stellare nominata gli Antichi. Lemuel aveva una casa a New Orleanse, aveva dei fedeli a cui teneva e non sarebbe mai riuscito a vivere con serenità una vita umana sapendo quali cose attendevano al di fuori del regno degli uomini, oltre le porte astrali, il giorno in cui far crollare i fragili bastioni degli uomini per tornare a governare sulla terra come era stato millenni prima. Aveva visto il colore, aveva visto Cibele, ma Papa Legba gli aveva svelato che quelli erano solo pallidi messi di ciò che attanagliava il cuore degli uomini in segreto.
Così Lemuel aveva deciso di prolungare la propria vita per vegliare sulle vite e sulla ragione dei suoi fedeli; a quel che ne sapeva non erano in molti a conoscere l’esistenza degli Antichi e ancora meno a combatterli; qualcuno doveva farlo.
Così si era procurato da un ebanista di Arkham una scatola intagliata di quercia nera, vi aveva fatto incastonare la pietra d’onice più pura che era riuscito a trovare e aveva messo dentro la scatola la propria anima.
Era stato doloroso, faticoso e per nulla facile, ma ci era riuscito. Ora doveva trovare un luogo sicuro dove riporla.
Aveva provato con la palude che allagava l’altipiano sopra Innsmouth, ma lo spirito della palude era stato enigmatico parlandogli sotto la luna piena attraverso il vecchio grammofono di suo padre: non è questo il luogo, sotto la luna, sotto la luna; ma sotto il sole, sotto il sole.
Il vecchio Zadock dormiva sereno, mentre Teresa canticchiava una vecchia lullaby di quando era bimba, una canzoncina che aveva dimenticato ma che aveva molto amato; cosa le importava degli Antichi? Cosa le importava di quel mondo, in fondo? Quel mondo oscuro e atroce pieno di creature maligne nella notte, cosa le importava di se stessa?
Un solo rimpianto aveva in quella notte senza stelle, in quella città orrenda e fatiscente, forse da li a poco sarebbe morta e la sua timidezza non gli aveva mai permesso di conoscere l’amore, di conoscere un uomo.
Ma qualcuno c’era stato vero? Una voce giovane ed infantile aveva cominciato a risuonarle nel cervello, e le ripeteva che qualcuno che lei aveva respinto in una notte di luna piena come quella nella fanciullezza dei suoi sedici anni c’era stato; subito prima della guerra, subito prima dell’orrore. Forse ora rimpiangeva quella scelta.
Le voci si facevano più intense e ossessive facendola ridere scompostamente, non sapeva se parlassero di lei o d qualcun altro, non sapeva nulla, sapeva solo che era Teresa O’Neil, perduta in una città dimenticata dagli uomini sotto la luna piena, e non aveva mai conosciuto l’amore.
Teresa rideva da sola e canticchiava una sciocca canzoncina crudele di cui Lemuel afferrava solo poche parole in celtico mentre le riempiva di monete d’oro dai suoi risparmi le mani tremanti e faceva le giuste suppliche al dio di un altro pantheon di proteggere la mente della devota Teresa cara ai suoi dei.
Le monete le caddero di mano in una scrosciante cascata d’oro.
Da dove veniva questo suono di monete? Non era la prima volta che sentiva questo suono, quella notte dei suoi sedici anni aveva sentito lo stesso suono risonante in quella notte prima della guerra; chi era quell’uomo che la aveva baciata appassionatamente sotto la luna?
Ricordava il rosso aureo dei suoi capelli e quegli occhi scuri vibranti e fieri; ricordava le sue mani sul suo corpo e ricordava come la facevano sentire.
Ricordava anche di averlo rifiutato però, e la cocente delusione nei suoi occhi, questo ricordava, ma ora ricordava anche i baci sulla pelle e sulle labbra ed un lago segreto dove lui l’aveva portata nel folto del bosco lontano dagli sfavillanti e alti fuochi della festa.
Ora lei era su quel lago, ed era con quell’uomo.
Lui la guardava come nessuno l’aveva mai guardata prima; era alto, enorme rispetto a lei che era una ragazzina; aveva una voce suadente e profonda e un sorriso che illuminava il cielo.
Quando le chiese se sapesse chi lui fosse Teresa non seppe rispondere, lui rise ma non smise di corteggiarla; le disse che lei era molto più di ciò che credeva, le disse che lei era la sua luna e lui il suo sole, che erano stati creati per stare insieme e che lui avrebbe scatenato guerre e fatto esplodere stelle per lei, la ebbe per sé e le mostrò, nella nebbia del lago, l’essere dalle alte corna che li osservava dalla sponda opposta.
Cernunnos, la folle risata dei boschi, il dio cervo, bramì al cielo e fece cenno di inchinarsi di fronte a Teresa, di fronte alla nuova coppia.
Un dio si stava inchinando a lei.
Poi fù la guerra; gli spari, i bombardamenti, la devastazione sulle belle colline verdi, le urla strazianti degli uomini, la morte atroce di centinaia di loro che Teresa provò a salvare; arti maciullati e porzione di visi fatti esplodere dalle granate o strappate dal filo spinato. Il dolore, tutto quel dolore… il fragile cuore di Teresa esplose.
Lemuel aspettò pazientemente osservando Teresa ondeggiare alla litania della sua canzoncina infantile rimirando le monete d’oro , aveva sentito uno scrosciare di monete ma nessuno si era fatto avanti.
Quando Teresa esplose in un grido; si contorse sul freddo pavimento di pietra reggendosi la testa senza dar cenno di riconoscere lui o quello che li circondava; le vedeva negli occhi la cieca, oscura follia e la risata matta che le uscì dalla bocca nulla aveva di umano, poi Teresa si mise a ballare, vorticando fra le panche di legno come condotta da un qualche caldo e folle vento invisibile; girava e girava e sembrava che le stelle dovessero girare con lei, che tutto il mondo dovesse girare con lei.
Ma Teresa non era sola; lei ballava con i loa, ballava con Loco, ballava con Legba, ballava col Barone, ballava con Erzulie, ballava con Maman Brigitte e ballava con quell’uomo immenso e rosso che la faceva volteggiare al suono di una musica.
Lemuel aguzzò gli occhi e finalmente vide, fra le ombre della chiesa, destate dalle luci delle candele, le ombre dei suoi Dei volteggiare con Teresa.
Vide il luccichio dei loro gioielli e dei loro bianchi sorrisi suadenti nel buio, e cominciò a sentire la musica ritmica e irresistibile a cui ballavano; e vide il dio che portava il nome di Mad Sweeney, il Re folle d’Irlanda, primo dei leprecauni, Dio del sole, volteggiare stringendo Teresa a sé, e vide che il viso della ragazza non era più trasfigurato dalla follia ma da una consapevolezza e da una libertà che mai gli aveva visto addosso e che ben la vestiva.
La notte si piega alle feste degli Dei.
Jeremy Freeman aveva passato anche la seconda notte nella lurida locanda; l’aveva passata a scrivere riempiendo il suo libro di pagine su ciò che vedeva e capiva degli Antichi; mille voci gorgoglianti provenienti da sotto di lui lo avevano fatto vegliare guardingo per tutta la notte.
La mattina non vide il carrozzone dell’amico nel lurido cortile e decise di mettersi alla ricerca dei compagni nell’immonda Innsmouth.
Non ne ebbe bisogno perché Lemuel fece la sau comparsa appena Keremy finì di mettersi al giacca.
La situazione non era dalla loro aprte; se ci si aspettava che loro tre soli, con Teresa in quelle condizioni, sarebbero riusciti a debellare gli abitatori del profondo da quella pestilenziale città avrebbero necessitato di un miracolo; ma per loro fortuna loro avevano un uomo capace di fare miracoli.
Lemuel aveva capito come ibridare la magia degli Antichi con la propria e se ne era impossessato e non perdette tempo a mostrarlo all’amico.
La stanza si fece buia e qualcosa di limaccioso e oscuro nacque dal pavimento al salmodiare di papa Lemuel.
Una figura rossa e ricoperta di sangue, alta più di due metri sorse dal pavimento; muscoli ossa e bianchi legamenti erano ben visibili data la totale assenza di qualunque tipo di pelliccia o pelle a ricoprirne il sanguinoso spettacolo; le lunghe dita finivano con artigli degni di belve richiamate dalle terre degli incubi ma la cosa più terrificante a vedersi era la faccia. Un teschio scarificato fino all’osso sovrastato da un enorme palco di corna decorticate li fissava con un ghigno atroce dall’oscurità mandando un odore acre impossibile da descrivere.
Jeremy fece qualche passo indietro, ma la creatura guardava fissamente il nuovo padrone con occhi famelici. Cosa desideri da me, negro chiese con una voce che giungeva direttamente da quello che a Jeremy parve l’inferno. Lemuel sorrise.
Quando la figura lasciò al stanza con un ringhio sentirono la porta della stanzetta sbattere e il suo galoppare giù per le misere scale. Il ghast, così Lemuel lo denominò, poteva rimanere nascosto in attesa di ordini mentre pensavano a quale piano mettere in atto.
Lemuel pareva particolarmente soddisfatto; la festa della notte prima aveva dato ottimi frutti. Mad Sweeney aveva accettato di buon grado di custodire per lui la scatola di legno nel suo scrigno personale, aveva lanciato la scatola alle spalle e questa era sparita restituendo dal nulla una convincente manciata di antiche monete d’oro; il tesoro del sole, spiegò Sweeney, era il posto più sicuro da mani mortali che riuscisse ad immaginare e poteva ben fargli quel favore dal momento che Lem gli aveva riportato la sua Teresa, di cui Sweeney aveva perso le tracce anni prima. Certo non poteva custodirla per sempre, quando un giorno il patto fosse scaduto sarebbe stato necessario rinnovarlo, lo informò il rosso con un ghigno. Ma quello era un problema che si sarebbe posto più avanti. Ora Lemuel aveva potere e una città di creature abissali da terrorizzare.
Non fecero fatica a trovare le loro prede. Una messe di quello strano culto di Dagon si stava tenendo nella più bella delle cattedrali.
Ma al porta non venne loro aperta; almeno finché Jeremy non cominciò a suonare.
Non avevano un piano in realtà, avevano un ghast, la magia di Lemuel e la benedizione dei loa, ma non un piano; avrebbero dovuto improvvisare. E così fece Jeremy suonando la sua chitarra con uno sguardo di intesa all’amico; vienimi dietro.
La canzone che Jeremy cantò narrava dia quanto quelli al di là del pesante portone fossero stupidi, di quanto avessero fatto infuriare il loro dio abissale Dagon e gli Antichi, di quanto loro sapessero e di quanto fosse ormai tardi per nascondersi. E la porta si aprì.
Quello che vi successe ebbe dell’incredibile; i fedeli vennero raggelati dal terrore sulle panche mentre il ghast faceva a pezzi il loro sacerdote strappandogli gli arti e mangiandoli mentre l’alta mitra d’oro rotolava ai loro piedi; Lemuel, seguendo il testo improvvisato dall’amico giornalista, li rimproverò aspramente di aver mal nascosto l’antica religione agli occhi degli umani e che per questo lui era lì per punirli.
Come erano arrivati, alla fine del banchetto del ghast, Papa Lemuel e Jeremy Freeman se ne andarono mentre gli abitanti di Innsmouth fuggivano terrorizzati da ogni parte.
Fù con estrema tranquillità che tornarono al carrozzone, nonostante le grida concitate che venivano dalle case apparentemente abbandonate di chi, in una lingua ben lontana dall’inglese, raccontava a parenti e amici la vicenda che avevano appena scatenato.
Non si stupirono nemmeno quando il grammofono del padre di Lemeul sembrò mettersi a suonare da solo, ci misero parecchio prima di accorgersi che non erano più soli nei loro discorsi; un nuovo ospite li stava allietando con la sua musica; non era Legba ma un loa che Lemeul non aveva mai conosciuto. Questo vecchio negro si complimentò vivamente con Jeremy per l’ottima esecuzione della ballata che aveva così spaventato gli abitanti del profondo; parlarono a lungo, più a lungo di quanto fosse loro concesso nell’automobile di Lemeul diretti alla chiesa riconsacrata ai loa.
“Ma ora, credo che voi abbiate altri ospiti con cui discutere, buona fortuna J.J.”
Di fronte a loro, a circondare la chiesa, tutti gli abitanti di Innsmouth, armati di fucili e coltelli, li attendevano. Era una ben strana folla da guardare. Vestiti da persone umane che di umano avevano pocho; i più giovani li scrutavano con i grandi occhi piatti, i più vecchi avevano aspetti più bizzarri. Coperti da una pelle grumosa che ricordò ai nostri quello strano pesce mangiato ad Arkham nominato “pesce di Innsmouth”, un’assenza quasi completa di peli e capelli, i più anziani avevano membrane ad unire le dita e totale assenza di nasi e di orecchie. Ma fù l’anziano Obden Marsh ad attirare più di tutti al loro attenzione.
Il fù capitano Marsh vestiva paramenti eleganti, marsina e cappello, un bastone in argento e spuma di amre intalgiata dalle strane decorazioni spuntava dalle mani grumose e coperte di scaglie, schiena collo e testa non erano più distinguibili come parti separate del corpo e la faccia mana era stata completamente sostituita da enormi occhi acquosi e inquietanti e una grande bocca dentata.
L’umanità del capitano Obden Marsh era completamente scomparsa da anni, se mai c’era stata.
Il ricco signore della città avanzò a fronte della numerosa famiglia e dei concittadini e parlò con inaspettata gentilezza a Jeremy e Lemuel, chiedendo loro spiegazioni su cosa avesse sbranato il reverendo e perché. Lemeul ebbe molto a parlare con Marsh che li invitò nella propria ricca dimora e discusse a lungo con loro.
Lemuel e Jeremy raccontarono così alla nobile famiglia Marsh come gli Antichi fossero scontenti del loro operato, molte voci erano giunte ad Arkham ed ancora più in là sulla strana popolazione di Innsmouth; gli Antichi non ne erano contenti, e altre religioni non ne erano contente.
Obden Marsh credette a tutto, si scusò con loro e promise che nessuno avrebbe mai più sentito parlare del culto dagonita; si preparavano ad andarsene. La cosa sarebbe dovuta succedere fra qualche decina d’anni, ma Marsh avrebbe seguito i loro consigli ed affrettato i tempi a quella stessa notte, se loro lo avrebbero ritenuto necessario. Jeremy e Lemuel lo ritenevano necessario e, anzi, avrebbero assistito volentieri alla cerimonia dell’inabissamento della cittadinanza allo scoglio del Diavolo.
Chiesero anche spiegazioni sullo stato di salute del vecchio Zadock e fù con stupore che vennero a conoscenza delle intenzioni di Marsh e dei concittadini; non volevano essere responsabili della perdita di sanità mentale del vecchio, anzi, avevano più volte cercato di portarlo con loro ma il vecchio testardo non aveva mai voluto e no, non lo tenevano recluso per chissà quale motivo sadico ma perché quella era la sua casa, quelli che si ostinava a non voler riconoscere amici e parenti che volevano tenerlo vicino per prendersi cura di lui.
Il raccontò intenerì il cuore di Jeremy che non stentò a credervi e guardò con occhio diverso il vecchio disgustoso Marsh e la sua cittadinanza.
Zadock Allen e Teresa O’Neil vennero liberati e messi sull’automobile di Lemuel con le precise istruzioni di portare il povero vecchio alla fattoria dei Gardner chiedendo a Merwin e suo fratello di prendersi cura di lui, Lemuel e Jeremy dovevano rimanere lì quella notte, per l’ultima notte.
Così Teresa si mise in viaggio mentre il giornalista ed il bockor si presentavano alla spiaggia di Innsmouth.
Il tramonto scese infuocato sulla spiaggia di sabbia nera mentre gli abitanti di Innsmouth scendevano le ripide scale dalla scogliera e si radunavano sulla nera sabbia.
La luna era ormai bianca ed alta nel cielo quando Obden Marsh fece la sua comparsa con i figli e si fece trasportare in barchino allo scoglio del diavolo che riluceva della luce lunare al centro della baia. Obden tenne un discorso in quella lingua gorgogliante che era la lingua della sua specie adottiva ai propri concittadini che, commossi, si spogliarono di ogni vestito e si immersero nelle nere acque della baia uno dopo l’altro fino a sparire. Per ultimo Obden Marsh lasciò cadere il prezioso bastone in spuma di mare e si inabissò verso quella antica, dorata e immortale R’lyeh
che lo chiamava a se ogni notte.
Sulla spiaggia rimasero solo Lemeul e Freeman ed uno sparuto gruppo di famiglie troppo giovani per l’inabissamento che salutarono piangendo padri madri amici e fratelli.
Così R’lyeh ebbe a sé nuovi adepti mentre la vecchia, decadente Innsmouth rimase deserta e inabitata come quella luna che ne bagnava le strade con la propria luce bianca.
I lampioni ogni gorgogliante voce o rumore meccanico si erano spenti su Innsmouth.
Fù in quel silenzio irreale che il bokor e Jeremy passarono la notte guardandola risplendente sulla città abbandonata.
Ma papa Legba era perplesso. Nella chiesa consacrata a suo nome Legba guardava il suo protetto e Jeremy molto sorpreso e molto dubbioso. Quello che avevano fatto era giusto, se lo ritenevano tale. Avevano allontanato i dagoniani e così facendo Dagon e gli Antichi da quelle spiagge ma sarebbe stato per sempre? Così facendo avevano davvero vinto nella battaglia contro gli Antichi? Forse no, forse c’era ancora qualcosa da fare. Li lasciò con un consiglio c’era qualcuno nel loro pantehon che conosceva meglio di lui gli abitatori del profondo e la dorata R’lyeh, lui avrebbe potuto prendere la giusta decisione, ma era necessario che vi stessero molto attenti dato che il loa era famoso per ambiguità. Così Lemuel aveva chiamato Agwé; loa degli abissi, signore delle profondità marine.
Agwé comparve e l’acqua con lui che bagnò il pavimento della chiesa in un dolce sciabordare e riempì d’odor di sale l’intera chiesa. Agwé aveva braccia nere coperte di tatuaggi, una giubba da ammiraglio di marina, un tricorno, una grossa conchiglia appesa alla cintura e occhi cattivi e ardenti.
Trangugiò le abbondanti offerte del bokor e ricordò il vecchio Obden Marsh con un sorriso malvagio. Marsh era uno dei suoi prediletti, peccato che non si fosse mai incontrato con qualcuno che lo potesse indirizzare verso la religione giusta, Marsh aveva un cuore malvagio e ardente da avventuriero, desiderava il potere sopra ogni altra cosa e nessuno era mai riuscito a fermarlo; ad Agwé piaceva. Che ne era stato?
La divinità rise quando seppe dell’inabissarsi di lui e di tutti i suoi concittadini e della trasformazione in pesce.
Lemuel era dubbioso; l’idea di coinvolgere un loa che non fosse il suo padrone in questi affari lo spaventava; non voleva rischiare di offendere Agwè, ne chiedergli favori che non avrebbe potuto ripagare, e nemmeno convincere il dio a fare qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Era una questione delicata che Jeremy prese in mano facendo parlare il lao di Marsh; dopotutto pareva essere quello che lo conosceva meglio. Così in effetti era, Marsh aveva navigato a lungo sulle acque come ben conosceva il culto di Dagon che proseguiva da millenni sul fondo dell’oceano, il suo oceano.
Agwè parlo loro del capitano Obden Marsh, della durezza della sua frusta con i suoi uomini e di quanto il suo amore per il potere fosse ben poca cosa nella dorata ed eterna R’lyeh. Questo incuriosì molto Lemeule Jeremy; Agwè voleva forse dire che ora Marsh on sarebbe più stato il pesce più grosso? Agwè rise di gusto della battuta; sì, voleva dire proprio questo. A Innsmouth Marsh era indubbiamente qualcuno, possedeva tutto l’oro, tutto il potere e tutta la devozione dei suoi; ma a R’lyeh le cose erano ben diverse, ora era l’ultimo arrivato in una città vecchia di migliaia di anni e i cui abitanti vantavano vite così lunghe da far impallidire gente come lui, ed il potere nella dorata R’lyeh si otteneva col tempo, tempo che avrebbe dato solo un giorno una frazione di tutto il potere che Obden Marsh bramava.
Questo metteva la situazione in un’altra luce; Legba aveva ragione, non avevano terminato il lavoro contro gli Antichi perché se Innsmouth rimaneva un giorno anche i dagoniani sarebbero tornati e con loro Marsh e la sua cieca brama di potere.
Agwé sapeva di trovarsi nella città appartenente a Obden Marsh? Chiese Freeman maliziosamente. Sembrava che vi fossero delle tensioni fra dagon e il signore dei mari; Dagon era più antico, ma Agwè aveva più fedeli, a Dagon apparteneva il popolo degli abissi ma ad Agwè il mare che abitavano e ciò che sul mare si affacciava. Forse avrebbe potuto lanciare un messaggio all’antico dio se Innsmouth fosse stata distrutta da quel mare da cui si nutriva e che loro chiamavano ora “casa”.
Agwè sorrise, di un sorriso maligno che spaventò Legba, e rise, rise di una risata divertita e crudele; avevano poco tempo epr salvare le loro anime da Innsmouth, era meglio epr loro correre. In lontanaza il vento cominciò ad alzarsi ululando.
Lemeul e Jeremy corsero con tutte le loro forze per rubare un furgoncino che li portasse in salvo; attaccarono il pesante carrozzone e cominciarono la disperata fuga da Innsmouth e da quello che stava per spazzarla via dalla costa.
Appena raggiunsero la salita che portava all’altipiano sovrastante la città abbandonata il cuore gli si attanagliò: un’onda immensa e silenziosa si stagliava all’orizzonte e macinava miglia sotto la bianca luna verso di loro. Solo per pochi metri sfuggirono ai flussi quando questa si si infranse sulla città di Innsmouth. Migliaia di tonnellate d’acqua distrussero le vecchie case, la villa dei Marsh, la cattedrale al culto di Dagon, la chiesa ai loa, la centrale elettrica, le baracche dei pescatori; sommerse le strade coi loro lampioni, inondò le piazze buie e le cantine oscure; distrusse tutto con la furia che è tipica del mare, la raffineria Marsh esplose sotto il peso dell’acqua che la scagliò contro la cascata. Nulla rimase di Innsmouth, se non il lungo comignolo di quella che fù la raffineria Marsh.
Correte uomini! Fuggite a mettere in salvo le vostre anime! Li incitava la voce divertita di Agwè.
Fù col cuore che esplodeva loro nel petto che videro l’onda infrangersi sull’altipiano appena raggiunto; l’onda anomala creata dall’iracondo e vendicativo dio dei flutti inondò il piano paludoso fin sotto le ruote del furgoncino che sbuffò pesantemente mentre il motore fondeva sotto lo sforzo.
Erano in salvo, e la fumosa città appartenuta a Dagon non esisteva più.
Ora, alla luce dell’alba, potevano vedere i fari dell’automobile di Lemuel guidata da Teresa venirgli incontro sul piano paludoso; ma la luce azzurra presto si dipinse di forme traslucide e geometriche che riempirono il cielo. Forme taglienti e vetrose si formarono loro intorno in quelli che parevano palazzi di vetro e cemento; quella che si stava formando attorno a loro era New York; o forse no? Quei grattacieli erano troppo alti, e il vetro che li ricopriva troppo esteso per la New York che conoscevano loro.
“Spostati dalla strada, negro!” li apostrofò una voce comparsa a pochi metri da loro dal nulla che si allontanò di corsa; quella era indubbiamente New York, ma non era la New York che conoscevano loro.