Campanelle d’argento
Il giovane lord Arcie Chatterille camminava nel gelo invernale tenendo le mani, guantate di pregiata pelle di vitello, nel profondo delle tasche del cappotto di lana e lasciando impronte scure nella neve dietro di se, nel buio.
I lampioni splendevano sopra di lui, sprigionando la loro fragile aurea; la fiammella a gas risplendeva sicura della bolla di vetro che la racchiudeva come una cosa preziosa, la cosa più preziosa nella fredda e oscura notte invernale.
Dalle finestre sopra la sua testa, coperta dall’elegante cilindro che era stato di suo padre, uscivano le luci, i suoni, i profumi, le risate e i colori delle feste.
Per quanto il gelo penetrasse nelle ossa le strade principali di New York erano percorse da gruppetti compatti di indafferate dame di carità, avvolte nei loro scialli di lana e con grandi cesti stretti fra le mani. Scendevano dai calessi di famiglia per raccogliersi fra loro e cominciare il tragitto che le avrebbe condotte, porta dopo porta, pensava non senza scherno lord Chatterille, al paradiso.
Si fermò a fare un cenno galante alla dama più giovane e carina che, sotto lo sguardo dagli occhi di cristallo del bel giovane, arrossì e sorrise timida.
Una mela caramellata le cadde, lucida e golosa, dalla cesta, e subito la mano lesta di Arcie si chinò a raccoglierla per poi voltarsi prontamente con un grande sorriso astuto dipinto in volto e addentarla.
Lo zucchero, croccante, gli invase la lingua col suo sapore gratificante, e la dolce freschezza della frutta gli scrocchiò sotto i denti. Arcie gustò quella semplice prelibatezza infantile, poi gettò il resto in mezzo alla strada.
“Hark how the bells, sweet silver bells, all seem to say, throw cares away.
Christmas is here, bringing good cheer”, cantavano i cantori ad una famiglia che si era radunata ad aprire loro.
“Ascolta come suonano le campane, dolci campanelli d’argento, tutti sembrano dire: butta via le preoccupazioni, il Natale è qui!” Faceva eco ai canti l’imponente coro che proveniva dall’episcopale chiesa di St. Thomas dall’altra parte della strada.
“With joyful ring, all caroling (Oh, oh, ah) one seems to hear, words of good cheer from everywhere”, cantavano le voci angeliche, scaldando i cuori e le anime.
Arcie era assolutamente intenzionato a seguire il consiglio e buttare via le sue di preoccupazioni, lasciandosele fuori dalla porta mentre affondava dove molti uomini ambivano a stare.
Si mise a canticchiare: “Continuano a inviare senza fine il loro tono gioioso in ogni casa. Ding-dong, ding-dong…”, ridendo saltò sulla prima carrozza libera.
Le acque dell’Est River correvano rapide nel buio, lordando con acqua sudicia le rive ingombre di bottiglie rotte quando Arcie scese, sporcandosi le scarpe.
Un gruppo di ragazze, ubriache, gli mostrarono le cosce nude sotto gli strati di lana, sfoggiando sorrisi gialli di tabacco.“Voi stelle del firmamento non dovreste essere fra la merda ed il fango”, le salutò, facendole scoppiare in una risata sguaiata.
La più procace gli mostrò il bianco sedere nudo e rispose, “Aspettiamo il krampus che ci dia una bella ripassata!”
La porta si aprì ed una fiammata di capelli color del rame sfiorò il viso di Arcie.
“Il krampus frusterebbe solo quel tuo culo lascivo, Babette!”, le rispose la ragazza comparsa alla porta, ridendo mentre tirava dentro Arcie nel buio.
Babette le rispose: “Fatti fottere dal tuo damerino inglese, Alette!”
Alette lo baciò e chiese, sorridendo maliziosa: “La futura Lady Chatterille non sentirà la vostra mancanza stanotte?” Ma Arcie le morse una spalla nuda mentre la inseguiva al piano di sopra; lei strillo e rise.
“La futura Lady Chatterille è coi suoi vecchi genitori, stretti davanti al camino mentre attendono di andare alla messa di mezzanotte. Non prorio il mio tipo di intrattenimento.”, rispose furbo il giovane lord.
“Siete sgattaiolato via come un monello dopo la cena, non è vero?”, lo stuzzicò l’amante, levandogli il cappotto e passandogli le braccia attorno al collo una volta arrivati nella modesta stanzetta in cima alle scale.
“Da ragazzino dovevate dare parecchi grattacapi al Krampus di Babette”, commentò lei allusiva, mentre lui le tempestava la gola di baci, sdraiandola sul letto; ma Arcie rise e chiese: “E chi sarebbe questo tizio, mia piccola puttanella olandese?”
Lei glielo spiegò, e lui non ascoltò una parola mentre affondava fra le sue cosce.
Quando Arcie uscì dalla baracca di Alette lo fece correndo, il boccale tiratogli dietro si infranse sul terreno ghiacciato. Il viso chiaro e furioso di lei comparve dalla cornice della finestra; i capelli scarmigliati. “Siete un farabutto!”, gridava Alette.
Babette e le altre uscirono dalle loro bettole con i protettori che brandivano i bastoni.
Arcie scappò nel buio di un vicolo, e loro lo inseguirono. “Dalle i suoi soldi, damerino inglese!”, gli gridarono indietro le ragazze, indignate. Ma Arcie ad Alette aveva risposto: “Come credi che potrò comprare le fedi quando convolerò all’altare il prossimo mese, se ti pago?” Lei all’inizio aveva osato sperare parlasse di loro due, poi, dal suo sorriso meschino, aveva capito.
Distanziò presto i grassi uomini ringhianti.
Si fermò a riprendere fiato in un angolo buio. Aveva perso i favori della provocante Alette, ma la futura Lady Chatterille meritava un bell’anello; lei non era una puttana, era dolce, ingenua e pulita e lui credeva fermamente di amarla. La sua dolce Lavina.
Rumore di catene dietro di lui. Arcie si voltò di scatto verso il buio.
“Chi c’è?!”, chiese. Una voce gli rispose cantilenando: “Ascolta come suonano le campane, vecchie campanelle d’argento. Tutti sembrano dire: senti il gelo invernale. Il Natale è qui, portando la notte più nera. Din-don, din-don”
Un volto di donna emerse, pallido e serio, dall’ombra. Arcie tirò un sospiro di sollievo e ammise: “Sono certo di non aver mai sentito cantare così Carols of the bells”
Lei rispose con voce profonda come le viscere della terra: “È una vecchia narrazione, giovane e sciocco ragazzo. Molto più vecchia di te e di tutti i tuoi avi.”
Il nobile Arcie rispose sprezzante: “Ne dubito alquanto”, lei lo ignorò, cantando:
“Sembra di sentire l’eco di orrori lontani da ogni parte riempiendo l’aria.
Oh, come martellano!
Alzando il loro suono su monti e valli raccontano la triste storia”
Irritato dai toni sempre più alti del canto Arcie allungò una mano nel buio e ne riemerse con un polso femminile stretto fra le dita.
“Smettetela, o mi farete scoprire!”, ringhiò.
La donna lo guardò fisso con gli occhi severi di un antico dio; capelli corvini le incorniciavano il viso rigoroso. Gli zigomi erano affilati e le labbra scure come more d’inverno. Portava braccialetti d’argento ai polsi e catene attorno agli avambracci. Arcie provò un semisconosciuto senso di vergogna e lasciò la presa, arrossendo. “Siete una zingara?”, chiese, affascianto, e aggiunse: “Un’amica di Alette?”, ma lei scosse la testa: “Sono amica di tutte”
Arcie percepì il giudizio severo di lei, ma lo ignorò, derisorio.
“E vorreste essere anche mia?”, propose, sfoggiando il più affasciante dei sorrisi.
Lei rispose alzandosi lentamente in piedi e cominciando a crescere.
La sua altezza era inverosimile, poi impossibile quando la testa scomparve dal fioco cerchio di luce. “Non sarò vostra amica, Arcie Chatterille, dissoluto ragazzo.”
Arcie guardò con orrore spuntare dal buio due zoccoli caprini.
Occhi luminosi come specchi troneggiavano ora su di lui, una lunga coda ricoperta di irsuti peli grigi sferzò l’aria. Arcie si paralizzò dal terrore mentre la grande mano dalle unghie lunghe e nere come artigli di lupo si allungava verso di lui.
Si voltò, cercando la salvezza, ma la signora lo brancò per la collottola e lo sollevò da terra, in alto, sempre più in alto, poi solo il buio attorno a lui e la voce, roca, che cantava: “Suonano senza sosta nei tuoi sogni, mentre la gente si rifugia alla luce di un camino. Il Natale è qui! Spaventoso, nero Natale”
Arcie si mise a gridare, atterrito, tremava; annaspò, era dentro un sacco? La voce continuava, lugubre, il suo gelido canto, ignorando le sue grida di terrore: “Continuano a suonare senza fine il loro tono angoscioso: Din-don, din-don…”
Era mezzanotte passata quando un giovanotto una volta eccessivamente sicuro di se venne abbandonato come un cucciolo nella neve, ormai alta, del centro città.
Gli si appiccicò, crudele, alle vesciche alte un dito che gli percorrevano la schiena nuda in lungo ed in largo a decine, ed il selciato ghiacciato grattò i suoi lividi.
Arcie gridò di dolore, con voce resa roca dal troppo pianto, le guance rigate di lacrime roventi, le ossa peste, l’ego in frantumi.
La gola gli faceva male, il petto gli faceva male, la schiena fustigata era un unico martirio di sordido dolore dal collo fino alle natiche e, per quanto si sforzasse, riusciva solo a strisicare nella neve, seminudo.
“A…aiuto… aiuto… vi… prego…”, supplicò con voce rotta dai singhiozzi, tremando. Deglutì. “VI PREGO!”, riuscì a gridare, un grido in grado di spezzare un cuore.
Passi lontani, poi voci, voci conosciute e uno scalpiccio vicino; una dolce voce e delle ancor più dolci mani dalle dita affusolate lo raccolsero dal selciato.
Archie intravide il fulgore dell’anello di fidanzamento di sua madre ad una delle dita che gli passavano sui lividi tumefatti e gli scostavano i capelli dal volto.
“Arcie!”, piangeva la dolce Lavina, baciandogli la fronte rovente di febbre.
“Mio amato Arcie, chi vi ha fatto questo?!”, chiese fra le lacrime la ragazza mentre i genitori sopraggiungevano, goffi nei cappotti e nelle mantelle.
Arcie riuscì solo a rispondere nei deliri della febbre: “Din-don, din-don…
Senti come suonano le campane? Vecchi campanelli d’argento, ascolta la nostra invocazione, salvaci dalla più lunga e gelida… delle notti… Din-don, din-don…”
E una voce, lontana nel buio, rispose intonando: “Questa è la canzone.”, mentre lord Chatterille sveniva fra le braccia dell’amata che non avrebbe tradito mai più.