Racconti umoristici

Il Cane Rosso. cap. I°

A chi piacciono i remake? Quasi a Nessuno, ma quasi a tutti piacciono i preludi, i preceprima di una storia che già conosciamo ma sulla quale abbiamo ancora tante domande; come è finito lì quel libro, per esempio.

Quindi eccovi il preludio de “La Strada Bianca” che voi conoscete come antologia con titoli come “I deliri di Exham, e altri racconti”su queste pagine.

Altri protagonisti, altre strade, altro tempo, stessa città, stessa storia. Il sergente Putnhan e gli altri hanno trovato il libro e recuperato la loro sanità mentale e le loro vite dopo aver rischiato entrambe nelle mani degli antichi, ora avete la possibilità di vedere cosa successe prima di quegli eventi. Un’articolata tournè nei più bei racconti del solitario di Providence, H.P. Lovecraft e affini con protagonisti personaggi meno action e molto più introspettivi rispetto ai nostri soldati precedenti , personaggi che ho amato molto e si cui vi narrerò le gesta.

Buona lettura, e buona 1/2 notte.


Il Cane Rosso

Se le cose accadono per volontà degli Dei e le stelle brillano in determinate costellazioni che avevano nome e forma prima ancora della venuta dell’uomo, allora l’umanità dovrebbe tremare di fronte a quello che potrebbe succedere, degli sbagli e delle vittorie di questi predestinati che non hanno scelto ma nelle cui mani rimane il fato degli uomini, la cosa più preziosa e frangibile dell’universo.

Molte cose sono state nascoste agli occhi dell’umanità, molte ritrovate; di una di queste cose, di questi potenti oggetti, di queste terrificanti gesta, l’umanità moderna non è destinata a sapere perché venne nascosta alla luce del sole e di quelle stelle molto tempo fa.

Jeremy Jonathan Freeman si svegliò nel suo letto quella mattina richiamato dall’abbaiare di un cane.

Un magro cane dall’aspetto innaturale stava ai suoi piedi, guardandolo innocentemente.

La sua pelle era rossa come la terracotta, era senza peli e dall’aspetto gommoso ed il muso aveva qualcosa di assurdamente umano ed espressivo che risvegliava in lui un certo ribrezzo.

Jeremy si alzò per seguire la strana bestia senza capire; spaesato e stranito seguì l’animale fuori dal proprio appartamento.

La città di Nuova York si presentò di fronte a lui, gli schiamazzi delle automobili e della folla rumorosa ingombravano le strade; il cane attraversò veloce la strada seguito dall’uomo zoppicante; di colpo nessuno ingombrava più le strade e l’uomo ne approfittò per entrare dentro un negozio.

Una sagoma di cartone aveva preso il posto del macellaio e il cane scodinzolava contento addocciando delle salsicce che l’uomo rubò per lui bonariamente.

Se quello doveva essere un sogno allora anche una banca sarebbe stata sorvegliata da null’altro che sagome di cartone.

Freeman uscì dalla banca con banconote anche nel cappello, il cane scodinzolante felice accanto a lui, fino ad un vicolo ingombro di spazzatura e detriti e del tanfo insopportabile della sovraffollata metropoli; ma uno spettacolo molto diverso si aprì agli occhi del giovane al termine del vicolo.

Le banconote erano svanite ed una luce ardente di un rosso folgorante, simile alla colata incandescente di acciaio fuso invadeva la strada deserta di fronte a lui.

Freeman si diresse con passo incerto al centro della strada deserta e solo allora vide l’infuocato astro che riluceva pantagruelico alla fine della strada, accecandolo.

Una sagoma alta fuori dal normale e dalla pelle nera come l’ebano e ammantata di vesti regali procedeva verso la palla incandescente che pareva sciogliersi lentamente sull’asfalto.

Quando Freeman si voltò una folla immensa riempiva la via, seguendo l’uomo negroide in una catalessi trasognante. L’immensa moltitudine scansò il giovane proseguendo l’instancabile processione barcollante nel sole.

Il cane rosso abbaiò dall’altra parte della strada, richiamando l’uomo che dovette farsi largo fra quella marea umana fino a raggiungere il marciapiede opposto.

Un secondo vicolo oscuro e poi strani edifici non più di vetro e cemento, ma di quella che pareva ossidiana lucida e specchiata, intagliata nelle pittoresche forme ossessive di una geometria bella ma bizzarra.

Lo stesso bizzarro materiale scorreva sotto i suoi piedi riflettendo la sua immagine di giovane uomo americano; il cielo era del color dell’arancio bruciato e nessuno intralciò il suo cammino fino a giungere alle mastodontiche porte di un edificio al quale il cane rosso raspò insistentemente.

Freeman spinse il pesante portone nero ritrovandosi all’interno di un’immensa stanza dai soffitti bui e troppo alti per poterli scorgere; ma un grande quadro , di diverse pertiche d’altezza, sovrastava tutto.

Il volto non era ben visibile nelle volute d’ombra ma potè ben vedere che si trattava del ritratto di un uomo, un anziano dall’aspetto severo, superbo, vestito di ricchi abiti e col gomito destro poggiato appena su di un leggio vuoto; all’angolo sinistro la firma dell’artista, indistinguibile, in vernice scarlatta era dominata da una contorta “P”

Ciò che già possiedi mai riuscirai a trovarlo”

Jeremy Jonathan Freeman si risvegliò nel suo appartamento. La donna che aveva portato con sé la notte prima dormiva accanto a lui e non mostrava più la bellezza effimera che l’alcol e l’aria fumosa del locale avevano mostrato ingannevolmente.

Dalla parte opposta della città un uomo malamente vestito bussava insistentemente alla piccola porta di un carrozzone mobile riccamente decorato fermo sulle rive malsane e mal frequentate del fiume Hudson.

Quando la piccola porta adorna di ricche figure geometriche dall’aspetto bizzarro venne aperta un uomo dall’aspetto esotico fece la sua comparsa sulla soglia.

Il cranio accuratamente rasato, la pelle nera contrastavano con gli occhi cerulei che scrutarono l’ometto che doveva aver svegliato il negro adorno di lunghe vesti ricamate.

La polizia pareva stesse arrivando su quella sponda del fiume per una retata e se non voleva guai sarebbe dovuto spostare la propria casa su ruote il più in fretta possibile come già stavano facendo i suoi transitori vicini di casa.

Papa Lemuel Bleckmore, questo era il suo nome, agganciò la propria automobile al grosso carro e mise velocemente in moto partendo nel momento in cui alcune automobili della polizia facevano irruzione sulla sabbia lurida e limacciosa del fiume in un gran volare di vecchi giornali e scatoloni marciscenti abbandonati.

L’ometto che aveva prontamente approfittato del repentino passaggio, allungò all’uomo una lettera arrivata di prima mattina dalle mani di un garzone.

Era scritta a mano in una splendida e antiquata calligrafia e in uno stile pesante che mal si associava a quegli anni moderni.

A qualche isolato di distanza una giovane donna dai capelli neri e dalla pelle bianca come alabastro cominciava il proprio turno lavorativo al St. Hart Ospital come infermiera, quando una collega gli allungò una pesante lettera in carta pergamenata assieme al caffè.

Ci mise molto ad aprirla, Teresa non riceveva spesso posta, e la lettera cadde sotto l’occhio delle infermiere che la esortarono ad aprirla senza altri indugi.

Era firmata da un certo Joseph Curwen, un uomo famoso a New York per l’opulenza del proprio patrimonio e l’abitudine a farsi ben volere dalle commissioni cittadine per la generosità delle offerte a orfanotrofi, scuole, ricoveri e ospedali.

Le voci eccitate delle infermiere convinsero la giovane a presentarsi all’ufficio del decano mecenate, come invitava a fare la lettera, il pomeriggio stesso a mezzogiorno in punto.

L’ufficio si trovava all’ultimo piano di un vistoso grattacielo nel centro della città caotica; svettava alto sopra tutti gli altri rilucendo nella luce dorata con le sue guglie e spuntoni incombendo sulla città sottostante ed ergendosi verso il cielo.

Teresa O’Neal, con addosso il suo vestito migliore, entrò in un elegante bar di vetro e metallo. Era parecchio in anticipo sull’orario dell’appuntamento e prese un caffè.

Dal bancone del lussuoso bar notò, seguendo gli sguardi indignati di un gruppo di attempate newyorkesi, un duo insolito per il bar in cui si trovava; un uomo bianco con un bastone al fianco e un ginocchio reso rigido da una frattura scomposta seminascosto sotto il tavolo, in un completo grigio e l’aspetto stazzonato, rideva al tavolo con un uomo di etnia negra; le ricche veste che lo coprivano erano sui toni del nero, del viola e del bordeaux e riccamente decorate, si accompagnava ad un bastone d’argento e rideva mostrando una dentatura d’alabastro.

Come un lampo la mente della donna ricordò l’immagine di un uomo nero come l’onice che si stagliava contro un sole pantagruelico e del colore dell’oro fuso. Un cane rosso le scodinzolava accanto, un cane dall’aspetto gommoso.

Il sogno bizzarro di quella notte.

Fù con stupore, dopo essersi avvicinata a loro, che scoprirono di essere attesi tutti e tre nello stesso grattacielo, allo stesso piano, e dallo stesso uomo.

L’ufficio del signor Curwen occupava un intero piano dell’edificio; le geometrie dell’art-decò adornavano pareti e porte fino all’alto soffitto decorato dando a tutto il riflesso dell’ottone dorato e dell’acciaio.

Le ossessive forme geometriche in onice specchiato rivennero alla mente di Freeman.

La segretaria accompagnò il trio per il lunghi corridoi fino alle pesanti porte dello studio di Joseph Curwen che si presentò nel suo opulente ma minimale studio come un uomo estremamente anziano ma dalla schiena fieramente dritta e dalla forte stretta di mano.

I suoi modi erano affabili e antiquati e il suo parlare lento e austero.

Fù con questi modi gentili ma fermi che espose ai tre ospiti il motivo dell’invito; Curwen era in possesso di molti oggetti preziosi e non tutti potevano essere ceduti in mani meno che sicure; fra questi vi era un libro; il più antico libro conosciuto all’umanità ancora integro e leggibile conosciuto come “libro di Dzyan”, il libro più antico del mondo.

Curwen spiegò quanto il libro, e il contenuto del libro, potessero essere pericolosi se nelle mani sbagliate; necessitava quindi di intrepidi che non temessero di sfidare il pericolo per metterlo al sicuro da mani umane, incluse le sue.

Un luogo lontano dove lui stesso e i suoi molti nemici non potessero giungere, di questo servizio abbisognava e per questo sarebbero stati ampliamene ricompensati con la somma di diecimila dollari a testa.

Non nascose stupore quando papa Lemuel gli riferì di conoscere già il suo volto, non dalle prime pagine dei giornali, ma da un sogno fatto la notte stessa che lo vedeva raffigurato su di un mastodontico quadro ad olio che lo raffigurava accanto ad un leggio vuoto.

Curwen ammise che non erano i primi che aveva contattato per la missione, ma che erano gli unici che si erano presentati ai molti appuntamenti.

Trovare persone degne di un tale compito non era stata impresa facile ed era sicuro che il fato gli avesse messo finalmente davanti il giusto gruppo di avventurieri; d’altronde non poteva sperare in meglio che non in un’infermiera dalla bravura pari a quella di un chirurgo che aveva servito nella grande guerra come irlandese al fianco degli alleati britannici, un giornalista dalle ottime capacità investigative e dal riconosciuto coraggio che non si era lasciato spaventare dalle minacce della mafia locale continuando le proprie indagini fino alle prime pagine di cronaca e alle logge dei tribunali; e di un religioso fedele proveniente dalle paludi di New Orleanse, grande viaggiatore e sognatore, molto ben voluto dalle proprie divinità e potente della propria magia.

Il fato credeva, doveva aver mandato loro quel sogno per convincerli a venire nel suo studio e prendere dalle sue mani l’antico manoscritto e metterlo al sicuro per la salvezza del mondo.

Con queste informazioni i tre accettarono l’incarico e ricevettero le informazioni per compiere il primo passo in quel lungo viaggio; Curwen aveva un conoscente in una remota valle nelle Hunberland scozzesi; il mattino dopo un aereo privato li avrebbe condotti oltreoceano per parlare con il contatto e cominciare al loro ricerca.

Ebbri di informazioni i tre lasciarono il palazzo di Jospeh Curwen con il manoscritto prezioso conservato in una lussuosa scatola di mogano e si diedero appuntamento quella sera per discutere dell’accaduto prima di prendere il volo oltreoceano la mattina dopo.

Era una fredda sera di maggio, quella sarebbe stata la notte di San Patrizio.

Ci sono molte notti che sono state santificate dagli uomini e dalle religioni; notti che, per colpa di qualche strana formazione stellare , eclissi e truculenti avvenimenti storici fanno paura all’uomo che si protegge da esse e dai demoni che potrebbero celare svolgendo grandi feste luminose per scacciare la paura e rimanere uniti nell’attesa fino al far del giorno; notti che dovevano sembrare, ai nostri antenati seminudi e tremanti, promesse di un inferno in terra, della morte di un’alba che non sarebbe mai più risorta.

La notte del santo d’Irlanda era una di queste; chissà quale antico male striscia sulla terra quella notte, o nei cieli.

Jeremy J. Freeman, Teresa o’Neil e papa Lemuel desideravano festeggiare come tutti i loro concittadini, cacciando alcol da bere e musiche da ballare, e fu questa bramosia che li condusse a seguire l’invito di un paziente conterraneo di Teresa.

Il proibizionismo rendeva difficile festeggiare quella notte come i propri padri in terra d’Irlanda avevano sempre fatto ma il locale di barbiere dove i tre entrarono celava un nascondiglio nei magazzini sotterranei dell’attività.

Una cantina straripante di irlandesi e di puzza di alcol fermentato li accolse con le proprie luci calde ed i propri canti ipnotici.

Non ci volle molto perché la nostalgia prendesse Teresa e l’alcol Lemuel e Freeman; qualcuno strillò nella notte ma venne sovrastato dalle grida alte dei nostalgici e degli ubriachi, la sfilata passava sopra le loro teste con chiasso assordante e tramestio di quella folla brulicante e bramosa di vita; la festa travolse tutti come un’onda oceanica portando a vedere strane cose in quella massa ondeggiante per gli occhi di Jeremy che si convinse presto che quello che vedeva andava immortalato per dimostrare la sua sanità mentale a chi gli avesse chiesto perché sembrasse tanto sconvolto.

“Viva Azathaoth!” gridò una voce stridente e le facce che immortalò Freeman lo fissarono per un istante con una rabbia animalesca che non aveva mai visto su nessun volto umano; gli occhi folli trasfigurati dall’alcol e da una specie di rabbia nostalgica che ribolliva, gorgogliante, dal sangue di quella gente combattiva così lontana da casa e vessata tanto pesantemente dalle leggi di una nuova terra così severa nel negarle loro la gloria degli antichi dei, dei loro riti e del loro bisogno di rispettare le tradizioni.

Una retata di polizia fece irruzione mandando in pezzi la piccola porta di legno; il sangue e la violenza cominciarono a imperversare nella festa che trascinò via i nostri, ma non prima che papa Lemuel potesse alzare il proprio bastone e lanciare una gorgogliante maledizione sul primo bobbi che irruppe nella stanza permettendo loro di fuggire.

Teresa venne sollevata in alto da questa folla bramosa di violenza e di riscatto; volantini inneggianti alla liberazione cominciarono a passare di mano i mano e a venir lanciati sopra la folla da mani invisibili; papa Lemuel sollevò il proprio bastone una seconda volta; aveva anche lui sentito le grida, visto le mani alzarsi, le danze sfrenate e gli sguardi carichi d’odio immortalati da Jeremy; Lemuel era un uomo di mondo, ed era un negro in un regno di bianchi, sapeva fin troppo bene cosa sarebbe successo quella notte di San patrizio, sarebbe stata annegata nel sangue; così come tutte le feste che sfociavano in rivolta. Sentiva le cariche di polizia che irrompevano nelle cantine attorno e sapeva come sfruttare la violenza di quel sangue caldo.

Il Voodoo era una religione antica e plasmabile da chi sapesse come ingraziarsi i propri dei che, in cambio di doni e offerte e sacrifici potevano dare ad un bravo bokor che sapesse come farsi amare tutto ciò di cui necessitasse; e in quel momento Lemuel necessitava di forza e della potenza della ribellione.

Teresa, ubriaca, modellata dai loa del voodoo si trasfigurò in qualcosa di bellissimo e glorioso, da brava seguace degli antichi miti il suo sangue era forte e la furia della Mórrígan le invase il corpo; il volto parve, per un istante, truccato in un ghignante teschio, i capelli corvini si sciolsero e fluttuarono in un vento fantasma; Teresa si sentì potente e viva, i tamburi di guerra le rimbombavano in testa e la bramosia di caldo sangue americano le invase il corpo; come una furia spronò i propri compatrioti sotto di lei ad assalire le cariche di polizia che facevano ronda guardinghi attorno al corteo festante e ben presto fu lotta, e fu guerra.

Il sangue, troppo a lungo trattenuto nella paura, scorse per i marciapiedi e le strade della città violenta; Freeman e Lemuel non si nascosero alla forza della lotta ma vennero divisi dalla furia di entrambe le parti.

Nella notte ormai tarda, Teresa O’Neal si ritrovò, sola e sanguinante, sulla riva dell’Hudson.

Uomini e donne cantavano nenie attorno a piccoli fuochi e si stringevano gli uni agli altri; la lotta era stata vinta, rimaneva solo il dolore e il calore intorpidente dell’alcol.

Teresa si sedette sulla sabbia fredda, dolorante; alzò gli occhi al cielo e fù in quel momento che vide, strisciante ed immenso, il mastodontico serpente strisciante fra le stelle; un’ombra, una forma nera, più nera del cielo notturno; grande come un continente, silenzioso come l’universo.

Di fronte ai suoi occhi sbigottiti strisciava qualcosa nell’immenso cielo di New York.