Racconti umoristici

I deliri di Hexam, e altri racconti. cap.I

Se conosci il gdr non dovrò spiegarti nulla, se non lo conosci prima di leggere vai (gentilmente) ad informarti. Quì tutti masterizzano di ruolo, è il nostro passatempo preferito in assoluto, anche io ho masterato una campagna che vorrei condividere con te. I miei giocatori sono quattro, tutti uomini adulti e ben consapevoli di quello che stavano per affrontare giocando una campagna horror con me, ma hanno accettato lo stesso, gli intrepidi!

A te posso dirlo, quello che intendo fare è trasportarli in un viaggio turistico nel mondo Lovecraftiano; un viaggio per mostrare loro cosa io vedo quando leggo Lovecraft, e direi che sta funzionando visto il numero di “o cazzo!” che stò suscitando mentre narro e il gatto salta in braccio ad uno dei miei concentratissimi eroi.

Spero che apprezzerai queste cronache, l’appuntamento sarà settimanale e non sò quanto potrebbe durare la campagna. Divertiti, se puoi.

Buona 1/2 Notte.

Capitolo 1

Hexam Priory

Io vi dico: non lasciatevi ingannare dal progresso.

Non lasciate che esso veli i vostri occhi con promesse di novità e di modernità.

Non credete quando astuti pubblicitari e imprenditori vi diranno, ridendo, che dovete dimenticare i tempi andati con tutti i loro arcaismi, le loro leggende, i racconti appena sussurrati in buie case chiuse al gelo dell’inverno alla sola luce di candele e antiquate lampade ad olio a rischiarare, pateticamente, le ombre che da sempre attanagliano l’uomo, tremante nei propri letti o stretto al grembo della propria famiglia come l’uomo primitivo prima di lui faceva coi propri branchi nel fondo delle proprie tane; annusando da fuori l’odore acre di belve senza nome e di spettri urlanti della notte.

Non lasciatevi ingannare; perché quei tempi oscuri non se ne sono mai andati.

E non esiste luce elettrica, rombo di motori o chiasso di folla che possano spaventare e far ritirare quelle ombre antiche come la terra, quelle storie, quelle oscure verità così lontane dalla comprensione e dalla razionalità della moderna mente umana.

L’uomo è schiavo.

Schivo di atrocità che vanno bel oltre alle basse lusinghe della carne o dell’oro; esso non è schiavo di sé stesso più di quanto una stella non lo sia del cielo; ma quelle stelle, esse decretano il destino degli uomini, sussurrando alle loro orecchie ordini irrazionali e crudeli oltre l’immaginabile.

Le stelle attraggono a sé l’uomo con il loro canto primordiale e folle; lo inondano della bramosia di staccarsi dal nudo fango che li ha generati per attraversare gli spazi siderali e vedere di persona quelle immensità cosmiche, folli e irrazionali, che volteggiano al centro dell’universo al suono di folle melodie astrali.

Questi dei delle stelle sussurrano all’orecchio dell’uomo e gli fanno capire quanto siano vane e superficiali le sue ricerche di ordine, la sua scienza e la sua catalogazione; e quando l’uomo sente questo richiamo non c’è forza umana che possa salvarlo dalla follia.

Questa che vi narrerò è il racconto che riguarda quattro uomini nella loro avventura oltre le sfere della scienza e dell’umana comprensione e di come questi pionieri varcarono la soglia e affrontarono ciò che l’uomo, prima di loro, aveva sempre fuggito, urlante.

Il sergente James M. Puthnam viveva una vita disagiata nei fondi di quella Nuova York affollata e caotica che era ciò che la seconda grande guerra aveva lasciato dietro di sé; uomini distrutti in tutto tranne che nell’orgoglio di aver servito la propria madre patria erano i suoi commilitoni e quell’orgoglio era ciò che gli permetteva di non abbandonarsi a vizi tipicamente umani come l’alcol o la violenza.

Un uomo duro, ma protettivo verso il popolo che aveva messo al sicuro dall’orrore nazista anni prima combattendo sulle coste della Normandia, una battaglia che gli aveva lasciato una dipendenza medica e ancora qualche ferita nel profondo della mente ma anche un’amicizia duratura con il tenente Walter M. Clark, di professione chirurgo e gran lavoratore in un affollato pronto soccorso del Queens, un uomo cinico e pieno di sprezzante umorismo ma anche di un sottile genio investigativo che si ripercuoteva sulla passione per la storia e l’occultismo e di un gran coraggio.

Spesso gli uomini dicono che non danno nessuna importanza a cose frivole come i sogni; ma non era questo il caso.

Una grande luce bianca aveva svegliato Puthnam facendogli aprire gli occhi nella propria branda al ricovero per militari la notte prima; ma non era nel proprio letto che si ritrovò.

Un deserto di sabbia bianca e roccia lo circondava, e una caotica folla di persone dall’aspetto orientaleggiante lo circondava immergendolo in una babele di gutturali lingue arabe.

Due ruvide mani scure gli caricarono sulle spalle qualcosa di pesante e ruvido intimandogli un ordine in una lingua a lui completamente sconosciuta. Lo straniero torreggiava sopra di lui dimostrandogli di essere un gigante o che la sua statura di uomo non era più quella che ricordava. Il sergente, nell’aspetto di un adolescente quattordicenne, protestò contro la sagoma torreggiante che si stagliava contro il sole ma lo sconosciuto indicò un vecchio dagli occhi penetranti e gentili che lo osservava pazientemente.

Il ragazzo seguì l’uomo che gli aveva chiesto garbatamente aiuto con il trasporto del proprio tappeto e venne condotto attraverso la folla sguaiata e puzzolente fino ad un’apertura nella montagna.

Un’apertura orizzontale, larga diverse pertiche ma alta non più di quattro piedi, che rimaneva accucciata sulla roccia del deserto con la sua forma rettangolare.

Il vecchio tolse il tappeto dalle spalle del ragazzo srotolandolo sulla sabbia e inginocchiandocisi.

io non posso entrare ragazzo, attenderò qui in preghiera; ma tu va, esplora le meraviglie che il tempio ti offre”

Il ragazzo entrò nel tempio il cui soffitto gli sfiorava i capelli e trovò, nell’ombra della roccia, un vestibolo che ospitava diverse paia di scarpe abbandonate. Tolse le sue scarpe rovinate lasciandole all’ingresso e nel momento in cui il suo piede toccò il pavimento di roccia liscia un senso di pace ne pervase le membra sollevandolo da tutti i pesi mortali come la carezza di un dio.

Si girò verso il vecchio all’esterno della caverna, dove molti altri arabi erano inginocchiati a pregare rumorosamente verso l’imboccatura della grotta.

Egli è grande” disse il vecchio con un sorriso, facendogli gesto di proseguire.

Il tempio era inondato della bianca e fresca luce riflessa del deserto e si rispecchiava sulle pareti ornate da un’infinità di geroglifici geometrici ripetuti ossessivamente in complicati mandala dorati.

Il tempio si presentava vuoto di altari, panche o colonne ma ad ovest, in un angolo formato dall’incontro di due pareti, si apriva un’apertura buia.

Il buio non venne infranto dalla luce dell’accendino del sergente che vi entrò fiducioso ma smarrito e un poco guardingo.

Piove. Il cielo bianco di pioggia sopra di lui.

Porticati rossi lucidi di pioggia e accuratamente laccati di un lungo cortile circondano il sergente.

Per terra piccoli ciottoli bianchi come confetti formano il pavimento del cortile e scricchiolano cinguettanti sotto i piedi nudi del ragazzo che si china a prenderne una manciata.

Un forte profumo pervade l’aria sprigionato dai ciottoli; odore di anice misto a spezie sconosciute all’americano.

Sotto un padiglione una vecchia cinese è in meditazione, gli occhi chiusi; all’avvicinarsi del ragazzo una voce riempie l’aria: “Egli è saggio”.

Un braccio della vecchia figura si alza ad indicare di fronte a sé. I porticati proseguono verso una zona buia che attrae come un potere magnetico.

Comincia a percorrere il giardino verso quel buio così affascinante che lo chiama a sé.

Il buio, il richiamo, profumo di anice.

Il richiamo, il profumo di anice.

Profumo di anice.

Il sergente si svegliò nella sua branda pervaso da una sensazione di pace che non provava più da quando era un bambino al sicuro dagli orrori degli uomini dall’amore di sua madre o sotto l’ombra benevola di un qualche dio che, oramai, aveva dimenticato.

Nello stesso momento altri tre uomini si svegliarono nelle sue stesse condizioni ai tre angoli opposti di New York.

Pioveva e mancavano solo tre gironi al sacro giorno del Natale.

Il sergente si procurò un apparecchio telefonico a gettoni, dopo esser stato bruscamente scacciato dalla propria branda da una insofferente donnetta di fede che tentava, malamente, di guadagnarsi il proprio paradiso spendendo il proprio tempo in un ricovero cristiano. Il sergente telefonò all’unico uomo di cui sentiva di potersi fidare, il proprio medico curante, amico e compagno d’arma; il tenente Clark, che lo invitò all’ospedale dove prestava servizio come chirurgo al pronto soccorso che poteva essere raggiunto con la moto, nonostante l’infernale babele cittadina delle prime ore del giorno in quella fumosa città.

Niente come le gioiose feste natalizie portano lavoro in un ospedale; i pazienti invadevano le corsie della clinica e procuravano continuo lavoro al tenente Clark; ma a distrarlo dai suoi compiti la segreteria, un’acida zitella proveniente dal Jersey, consegnò nelle sue mani una lettera, rigorosamente intestata in un’elegante grafia a pennino e bollata dai francobolli delle poste newyorchesi che il tenente ripose distrattamente in tasca.

La stessa lettera venne curiosamente recapitata anche al sergente Puthnam dalle mani di una giovane infermiera di sua conoscenza che lo accolse alla clinica.

Entrambe le lettere richiedevano, per mano della stessa calligrafia, di poter incontrare i due uomini ad un esclusivo indirizzo nel centro di Manhattan per discutere con loro della possibilità di ricevere un incarico che richiedeva uomini dai nervi saldi e le molteplici abilità; non sarebbe mancato un lauto compenso.

La firma recata era a nome di tale Joseph Curwen.

Raggiunto il lussuoso grattacielo dell’indirizzo dopo una corsa avvenuta requisendo un’automobile medica dal tenente per evitarsi l’infernale traffico pre-natalizio, e il litigio con un tassista al quale il sergente Puthnam aveva malamente tagliato la strada, i due uomini salirono al 23° piano indicato loro dalla portineria.

Il grattacielo era uno moderno esempio di art-déco; tutto l’ambiente risplendeva di acciaio e rivestimenti d’oro, alte e slanciate vetrate impiombate arrivavano fino al soffitto e, ovunque, mandala di finissime raffigurazioni geometriche riempivano l’ambiente.

Un uomo in borsalino e cappotto di cammello dava loro le spalle di fronte all’unica porta del piano attendendo che la porta gli venisse aperta.

Il signore si presentò loro col nome di Peter Rock, professore in archeologia egizia di origini olandesi che, dopo il passaggio della guerra e le sue miserie, deteneva un piccolo negozio di barbiere nei fondi della città; attività che aveva dovuto momentaneamente chiudere per venire in contro alle richieste di una lettera che richiedeva la sua presenza in quell’edificio entro la giornata.

Un quarto uomo raggiunse il trio; un giovane agente di polizia in divisa dalla carnagione tipica delle razze inglesi e dai capelli rossi il quale rispondeva al nome di Sean Burke; giovane timido ma entusiasta e ben propenso alle novità che la lettera ricevuta quella mattina al commissariato un tale signor Curwen gli prometteva.

La porta venne aperta rivelando un atrio ancora più grande di quello che stavano lasciando e vennero accolti da una professionale donna di mezza età in abiti eleganti che si riferì a sé stessa come la segretaria del misterioso signore, il quelle li accolse subito nel proprio maestoso ufficio.

Ma la meraviglia degli uomini fu grande nel trovarsi di fronte il viso gentile e sorridente di quello stesso anziano sognato la notte passata.

Lo stesso sorriso, gli stessi occhi. Egli si presentò come Joseph Curwen e invitò gli uomini perplessi a sedersi che pensarono ognuno di rimandare possibili domande per prima riordinare le idee.

Si riferì a loro come uomini di scienza, di onore e di spirito presentandoli gli uni agli altri e le sue speranze erano che il gruppo comprendesse l’importanza storica della missione che intendeva affidare loro.

La missione che sperava accettassero era rischiosa, particolare e molto ben ricompensata. Curwen si riferì a sé stesso come grande studioso di storia e di esoterismo alle domande dei suoi ospiti e che quegli stessi studi lo avevano portato a bramare un libro; uno scritto antico come la civiltà stessa e dal valore inestimabile di cui esistevano solo tre copie andate ormai distrutte dal tempo e dalle guerre; il grande libro di Dzyan.

Il professor Rock chiese, dubbioso, se si parlasse dello stesso libro che le leggende dicevano coperto da una maledizione tale che il solo toccarlo portava alla totale sparizione del trovatore, suscitando allarme fra gli uomini seduti; ma Curwen li rassicurò, dopo essersi complimentato con gli studi del dottore, dicendo loro che quello che il professore ricordava era l’Az-Aziz, il libro dell’arabo pazzo il quale appena finito di scriverlo venne divorato nella pubblica piazza da una bestia invisibile che divorò, di fronte a decine di testimoni terrorizzati, la propria vittima urlate e sgomenta partendo dagli arti inferiori fino a farne scomparire la testa, ancora lamentosa e folle di paura, dalla vista dei terrorizzati testimoni. Il più giovane di quegli uomini, il giovane agente Sean, sembrava il più colpito dal racconto e le lunghe mani dinoccolate e pallide del giovane uomo si strinsero fra di loro.

Ma il libro di Dzyan non era altrettanto pericoloso, li rassicurò il vecchio, e comunque il sergente rispose che se il pericolo era aprirlo una buona borsa di cuoio e due robuste cinghie avrebbero di sicuro risolto il problema.

Il sergente aggiunse anche il proprio sconcerto per aver sognato il viso dell’uomo la notte prima e subito, con sgomento, sia il professor Rock che il giovane agente di polizia si alzarono dalle proprie poltrone affermando con stupore che lo stesso sogno aveva assillato il loro sonno la notte passata. Constatato che si trattava proprio della stessa esperienza onirica, identica per tutti e quattro fin nei minimi particolari, il sergente infilò guardingo una mano in tasca e fu con stupore che sentì fra le dita la liscia compattezza dei profumati ciottoli bianchi raccolti la notte nel misterioso tempio ora conservati nel fondo della sua tasca.

Preferì non riferire questo bizzarro particolare e concentrare i suoi sospetti sul signor Curwen il quale rispose che non solo non ne era l’artefice ma che era ben lieto di sapere che, evidentemente, erano tutti possessori di quello che si necessitava per questa ricerca, un assopito potere di preveggenza e già un qualche collegamento con il libro ed i suoi misteri.

Vista la recente scoperta, si sentiva ora sicuro nell’affidare loro una protezione verso i pericoli che si sarebbero trovati ad affrontare estraendo un libercolo da un cassetto che il tenente sfogliò con attenzione trovandolo pieno di appunti e sottolineature nonché una serie di piccole fotografie slegate. Il libro era un’edizione da 15$ che chiunque avrebbe potuto acquistare in qualunque libreria esoterica ben fornita di Londra; un’edizione moderna ed illustrata del Necronomicon, nome moderno di quel famoso Al-Aziz della leggenda che aveva impressionato la mente dell’agente Sean.

Il libro era semplice carta stampata, nulla che fosse pericoloso, ma, se letto dai giusti occhi, poteva essere un utile alleato dato che gli incantesimi che proponeva se eseguiti nel giusto modo e da mani esperte e allenate all’occultismo, avrebbero recato gli effetti che il libro prometteva.

L’agente Sean chiese dove li avrebbe condotti la missione; la risposta fù nel nord-est dell’Inghilterra, nella contea di Humberland a sud-est di dell’antica Edimburgo. Li Curwen era sicuro avrebbero trovato molti indizi per mettersi sulle tracce del libro.

Alla domanda di una ricompensa il vecchio Curwen fù molto chiaro, la missione e tutte le spese sarebbero state a suo carico e il lavoro sarebbe valso a loro 10.000$, a testa.

La proposta causò un piccolo scompiglio fra le fila, il professor Rock propose, data la pericolosità della missione, di istituire un fondo che permettesse ai sopravvissuti di ritirare l’intera somma pattuita dimostrando così quanto fosse certo della pericolosità della missione.

Gli uomini accettarono la missione e salutarono il loro nuovo datore di lavoro per recarsi ad un pub ben conosciuto dal sergente Puthnam.

Le decorazioni natalizie erano pacchiane ma allegre e un’atmosfera di festa riempiva il fumoso locale dove fiumi di birra venivano trangugiati da una folla di manovali e lavoratori del ghetto di ogni colore di pelle e dicitori di ogni tipo di bizzarra lingua.

Egli è grande!” declamò un meticcio ubriaco ad un tavolo, ricordando ai quattro uomini del bizzarro sogno della notte prima; il meticcio ghignò, di un inquietante smorfia famelica, verso l’agente Sean quando, portato da quella confusione di voci sconosciute, la folla vociante parve parlar con una sola voce nominando una parola sconosciuta ma carica di un’arcaica paura irrazionale il cui significato sfuggiva alla comprensione.

Shub-nnighurat.

I nuovi compagni, dopo aver approfondito le rispettive conoscenze, si salutarono dandosi appuntamento l’indomani all’aeroporto cittadino per le prime luci dell’alba.

Il volo di dodici ore fino ad Edinburgo fù comodo grazie all’astuzia del sergente che, seccato all’idea di dover attendere ore di fila nonostante la sua posizione di veterano di guerra, escogitò una piccola messinscena per convincere le hostess a cedergli i primi posti della prima classe e a far loro saltare la fila.

Alla antica capitale scozzese vennero accolti da una macchina con autista che li condusse, fra strade tortuose e bianche campagne innevate da svariate spanne di neve, fino alla contea di Humberland e ad un sonnecchioso ma ridente paesino della campagna scozzese troneggiato a poca distanza da un diroccato castello dalla forma bizzarra che, coperto da una intonsa coltre di neve, dava l’idea di un arroccamento scomposto di svariate strutture costruite in diverse epoche storiche formando un mostro babelico di architettura nera e indefinibile.

Nella piazza cittadina faceva bella mostra di sé il calore di una locanda calda ed accogliente dove ancora ardevano le tremule fiammelle delle lanterne a gas e la modernità rappresentava sé stessa nell’oggetto di un bagno con gabinetto fra le mura della locanda ed una radio a pila.

Oramai ora di cena i nostri ordinarono alla gioviale padrona una lauta cena tipicamente scozzese, alcuni di loro ignorando il jat-lag mentre altri, nella persona del professore, ordinando uova fagioli e pancetta come colazione.

Il pasto fu lauto e soddisfacente ma, alle prime domande del tenente Clark sul castello che troneggiava sul paesino, l’aria ospitale e allegra della cameriera e della madre di lei si oscurò, accennando che nessuno parlava di Hexam Priory.

Il tenente non riuscì a capire i motivi di tanta riservatezza ma riuscirono comunque a utilizzare la simpatia della giovane cameriera per loro facendole raccontare loro le storie che circondavano il castello che veniva con tanta tenacia così disprezzato e sospettato dai nativi.

Le storie riguardavano i topi.

Ottanta anni prima, ai tempi del nonno della ragazza, il paese venne assalito da un’onda nera e contorcente di ratti voraci che, come un fiume di pece, discese dal castello riversandosi nelle campagne e divorando ogni cosa che si infrangeva al suo passaggio come uno scoglio vede l’acqua infrangerglisi contro soverchiandolo. Avevano divorato ogni cosa, ogni cosa che cadeva o si avvicinava a quel fiume compatto; cani, gatti, persino vacche intere e grassi porci oltre che orti e alberi da frutta, e persone. L’abominevole branco si era poi disperso per i campi e problemi di ratti avevano cominciato a infestare le cantine.

Cadde il silenzio al tavolo quando la giovine si alzò per continuare i suoi mestieri, un silenzio scettico e impressionato che il sergente Putham stemperò con un brindisi alla corona e alle valorose truppe che salvarono l’Europa dall’abominio delle catene naziste, al brindisi si unì la clientela della locanda che aveva cominciato a guardare in maniera diffidente gli americani ma i cui sguardi tornarono alle proprie pinte e conversazioni appena stemperato il clima di sospetto.

La locandiera, alle insistenti domande del tenente, rispose che non molti sapevano di Hexam Priory e della sua storia, loro, semplicemente, non ci si avvicinavano; trenta anni prima era arrivato uno straniero come loro per rivendicare la proprietà del castello appartenente ai suoi trisavoli; si chiamava Walter Delapore, arrivava da New York come loro e rimase un anno nel castello, finché una notte non lo abbandonò in tutta fretta dando l’ordine di minarne le basi e farlo saltare in aria. L’uomo, sgomento, se ne andò e i braccianti fecero come ordinatogli dal padrone, ma non successe nulla; il castello pareva indistruttibile, le cariche erano saltate ma nemmeno una scaglia di pietra si era staccata dalla struttura. Se era per loro urgente conoscerne la storia potevano attendere il vecchio Greg che entrò nel locale pochi minuti dopo e venne dirottato al loro tavolo.

Il vecchio condusse gli americani nella sua casetta da vecchio scapolo; si era fatto ormai buio e la neve continuava a cadere silente sul paesino illuminata dalle rare luci dei lumini a gas appesi sopra le porte.

Greg spiegò loro che era uno studioso laureatosi in storia nelle prestigiose università londinesi e trasferitosi nella contea dopo la morte degli anziani genitori cockney.

Nella casa libri di storia riempivano gli scaffali della disordinata libreria; il tenente Clark, osservando i numerosi libri in cerca di qualche indizio sul castello, raccolse dallo scaffale un volumetto bizzarro che spiccava per la libreria in cui si trovava. Un libricino di lullaby infantili tipiche scozzesi. Il vecchio notò lo sconcerto del tenente e si prestò a spiegare loro il mistero di Hexam Priory partendo proprio da qual libricino.

Lady Margharet Travor era la moglie del secondogenito del barone Delapore, vissuta nella Scozia medioevale e protagonista di una delle ballate più antiche della Scozia, Lady Margharet and sweet William.

Walter era appena sposato alla dolce sposina quando, la notte di nozze, lady Margharet si era presentata ai piedi del suo letto cantilenando “quanto è bella la tua sposa, quanto dolce il suo letto, quanto è bella la tua sposa”

Il dolce William si era svegliato il giorno dopo con la sua giovane sposa morta nel letto di nozze; “ho sognato il letto della mia sposa grondante sangue, e porci rossi sotto la grondaia” andava ripetendo, come in trance il giovane, dolce William a chi lo consolava per la perdita.

Il vecchio Greg chiese agli ospiti cosa sapessero del culto di Cibele detta “Grande madre delle belve”.

Il culto venne istituito a Roma nel 205 a.c. per esaudire una profezia sibillina che vedeva così scongiurata la vittoria di Annibale. Un culto dionisiaco di riti orgiastici e sanguinari che prevedevano l’autocastrazione dei propri sacerdoti. Il fiore sacro a Cibele era la viola rossa, nata dal sangue versato dal suo primo sacerdote che si autocastrò per lei.

La fortezza dei Delapore era costruita su uno di questi templi nominati a Cibele, che a sua volta era costruito su un tempio celta che poteva essere, a detta del vecchio Greg, appartenere a qualche culto a Chernunnos, dio della sotterraneità e chissà quali riti spaventosi e culti primordiali avrebbero trovato ancora più a fondo, nel terreno e nella roccia sotto Hexam Priory.

i topi nei muri sembrò scoppiettasse il camino.

 

Porci Rossi

Il mattino dopo i nostri si diressero al castello; la neve continuava a cadere e fu con disgusto che notarono una vegetazione distorta e abnorme accompagnare i loro passi verso l’ingresso di Hexam Priory.

Grosse teste di cavolo dall’aspetto gibboso e malsano , verze dalle foglie ricciute e zucche abnormi avevano infestato il terreno attorno al castello, probabilmente sfuggite a un orto nei giardini posteriori alla struttura.

Il pesante portone di quercia scura era chiuso ma il sergente non ebbe problemi a sollevare il paletto interno col suo coltello e a spalancare le porte.

La polvere ricopriva tutto nella grande sala che li accolse.

Le alte vetrate mandavano una fredda luce attutita dallo strato di ghiaccio che patinava i vetri. Lo stato di abbandono era solo parziale, i suppellettili erano impolverati ma intatti, nessuno aveva osato entrare ad Hexam dopo la fuga dell’ultimo Delapore.

Una grande scala di pietra conduceva ai piani superiori; tutto sembrava ristrutturato e ben tenuto, le pareti erano ricoperte di spessi pannelli di quercia inglese e un grande lampadario a gas, che venne acceso, sovrastava la stanza.

Sopra il grande camino che un tempo doveva aver scaldato con grandi fuochi la stanza e i piani superiori, troneggiava un grande quadro ad olio che il professore esaminò trovandolo di ottima fattura e di grande valore. Il tenente notò che doveva rappresentare l’ultimo Delapore prima della sua fuga, un uniforme della marina militare indosso e Exam Priory sullo sfondo; aguzzando la vista l’uomo notò che la struttura non era cambiata negli ultimi trentanni e che, sullo sfondo rurale, oltre l’orto che si intravedeva dietro al castello, un porcaio conduceva porci rossi al pascolo.

Ho sognato porci rossi sotto la grondaia!” ricordò con un sussulto di stupore il tenente le parole di dolce William, la vittima della ballata che aveva letto dal vecchio Greg.

Dopo aver puntellato la pesante porta d’ingresso per evitare che si richiudesse durante una possibile fuga, salirono al piano superiore dove un numero improbabile di stanze da letto riempiva il piano.

Dopo aver acceso le lampade, e aver supposto che nel caso di fuga avrebbero potuto far esplodere le condutture, trovarono quasi subito la stanza patronale; il letto fatto e un grande dipinto ad olio; la copia di un importante quadro conservato nel British Museum rappresentante un banchetto dionisiaco; Dioniso dalla forma caprina sorrideva beffardo osservando i suoi fedeli banchettare ai suoi piedi.

Dietro il quadro, che venne spostato, i pannelli di pesante quercia inglese erano sgretolati e marci, rosicchiati, e la scritta Magna Mater si rivelò ai loro occhi, affrescata sulla antica parete di pietra.

Un piccola porta a fianco del grande letto venne notata dai loro occhi attenti e, dietro di essa, delle scale salivano dentro la bassa torre a pianta quadra che avevano notato dall’esterno.

In cima un piccolo studio polveroso che venne attentamente esaminato. Il sergente si mise in difesa all’ingresso della stanza, il professore notò libri di storia e di guerre antiche e più moderne in una ben fornita libreria ma fù il tenente Clark a esaminare lo scrittoio e a trovarvi ben nascosto, in un doppiofondo, un piccolo diario e un portapergamene in argento che caddero nelle sue mani.

Il diario era datato 1˙923 e apparteneva a Walter Delapore dove narrava dell’anno passato ad Exam Priory. Era giunto li incuriosito dalla storia della propria famiglia, dalla fuga mai spiegata di suo nonno paterno dal castello di famiglia e accennava ad uno scritto che si tramandava di padre in figlio fin dai tempi della fondazione della famiglia ma che era andato perduto con la fuga del parente negli Stati Uniti D’America.

Il restauro era andato bene, ma tutti i gatti della casa, incluso il vecchio e amato Nigger-man, sembravano impazziti per inseguire qualcosa che raschiava e correva dietro i muri, oltre i pesanti pannelli di quercia appena posati dagli operai.

I topi nei muri, ricordò il tenente, subito prima di notare, con orrore, che i pannelli di quercia sembravano muoversi come di molle tessuto, sollevati da forme gibbose che correvano sui muri. Forse che il legno era marcio e le luci giocavano con i suoi occhi?

Puthnam prese il diario dalle mani dell’amico e continuò a leggere. Walter Delapore era infastidito dai topi, che correvano e grattavano dietro ai muri e poi disgustato e profondamente turbato. Quando decise di scendere nelle cantine seguendo il fido Nigger-man quello che aveva trovato non era stato riferito, ma l’orrore doveva essere stato enorme dato che l’ultima pagina parlava di abomini subumani degenerati dal più profondo Tartaro e che la macchia dei De la pore andava lavata con la distruzione di Exam Priory; Walter avrebbe provato a scappare, e a dimenticare.

Clark intanto esaminò il porta pergamena in argento, rendendosi conto di quando Walter fosse vicino alle risposte che cercava sulla sua dinastia senza mai accorgersene.

Il cilindro d’argento recava parecchi fogli incartapecoriti scritti di una grafia importante e in uno inglese arcaico difficile da comprendere.

I fogli erano intestati ai figli e scritti da chissà quale avo della famiglia; narravano di come il loro capostipite dovette fuggire dall’antico impero per rifugiarsi in quelle terre fredde e barbariche, di come trovarono presto un culto ancora più primitivo e così simile a quello della loro suprema madre, il culto celtico di Chernunnos, e di come i due culti si fusero portando alla grandiosità della famiglia. Mai dovevano dimenticare il culto e la loro Magna Mater, Cibele, mai interrompere i rituali e mai abbandonare quelle terre. Sempre avrebbero venerato la Magna Mater, madre delle belve.

Nyarlathotep sussurrò l’aria.

La parola ricordò al professor Rock il nome di un anti-faraone egizio dei antico quanto l’impero faraonico, mentre il tenente ricordò di aver letto nei suoi libri esoterici una storia recente accaduta a New York nei primi anni ’20. Nyarlathotep era stato un oratore egizio di brillante intelligenza che aveva tenuto una serie di sfavillanti conferenze portandolo prestissimo nell’olimpo dei grandi mentori dell’umanità. L’incredibile fama di Nyarlathotep sfiorò ben presto la venerazione ma, con la stessa velocità con cui era comparso, era poi scomparso nel nulla, portando con sé i suoi seguaci. L’evento non era segnalato su nessun giornale dell’epoca, e al dottore ricordò, per importanza e incoerenza, l’ autunno di morte, una notte epica e terrificante che aveva gettato la Londra dei primi del 800 in una babele di caos e di interventi di polizia che si erano prodigiosamente spenti con l’arrivo delle prime luci dell’alba.

Per tentare di capirci qualcosa cercarono indizi nel Necronomicon fornito loro dal Curwen riuscendo a trovare la strana parola che avevano udito a New York quella ultima sera al pub prima della partenza, quella parola senza significato che non erano più riusciti a dimenticare; Shub-niggurat. Esso era il carpo nero dai mille cuccioli, il portatore di innominabili piaceri e dio del Sabba delle streghe.

Anche il sergente decise di dare una lettura al favoloso Necronimicon; ma egli non era uomo di lettere e riuscì a capire ben poco dei complicati rituali e delle arcaiche spiegazioni; trovò però qualcosa che al sua mente di soldato e di abitante dei sudici e malavitosi quartieri di NY capiva bene; simboli. Un simbolo in particolare nominato “segno degli antichi” o “grande segno degli dei primigeni” che recava una semplice iscrizione “quando vorrai sigillare le porte”. Così il sergente incise quattro tavolette di legno e consegnò i ciondoli ai compagni; fù in quel momento che qualcosa nella sua tasca cominciò a scricchiolare.

Mise la mano in tasca e sentì sotto le dita i ciottoli bianchi del sogno. Essi parevano creare un certo magnetismo con il simbolo degli antichi appena tracciato. Puthnam distribuì i ciottoli ai propri compagni e si accorse che le voci che ogni tanto sentivano non solo erano sparite ma che formavano un brusio indistinto di sottofondo a cui non aveva fatto caso fino a qual momento, in cui tutto fu silenzio.

Decisero di non indugiare oltre e raggiungere i sotterranei dell’arcaica struttura per vedere coi propri occhi l’orrore tanto annunciato.

Trovarono facilmente le cantine ed una serie di scale che scendevano sempre più in profondità e nelle sempre più antiche epoche storiche che avevano creato la dimora. Una stanza con grandi archi a botte di fattura palesemente romanica. Una stanza vuota, senza uscite, una sola entrata.

Clark si mise doviziosamente a esaminare i muri fino a trovare un passaggio segreto molto particolare; un antico muro di pietra era stato eretto davanti all’uscita lasciando, fra i due muri, solo i centimetri bastanti per far passare il corpo di un uomo adulto. I topi che abitavano dietro il muro cercarono di assalirli ma vennero prontamente scacciati e uccisi dai lanciafiamme costruiti dal sergente Puthnam lasciando qualcosa da sezionare al dottor Clark.

Nello stomaco di uno dei ratti il tenente trovò pelo e piccoli denti; quei ratti si nutrivano di altri ratti; proprio come in una delle storie raccontata loro dalla giovane Janet, la figlia della locandiera, la sera prima che ricordava il nonno imprigionare una ventina di ratti in un barile inchiodato per un mese fino ad estrarne un ratto cannibale che aveva protetto la loro cantina fino ai giorni nostri.

Passando per quello stretto e angusto pertugio i nostri notarono, inciso nell’arco che li sovrastava, la scritta Magna Mater ed entrarono. Il cunicolo scendeva ripido nelle profondità della roccia e i gradini erano talmente consumati e lisci da creare ormai un ripido pendio verso il buio.

Il professore fù il primo a scivolare in quelle remote profondità trascinandosi dietro il tenente; Puthnam riuscì a puntellarsi con il piccone ad una parete e a scendere utilizzando la corda andando in soccorso degli amici.

Quando Rock ritrovò la sua lanterna e la riaccese lo spettacolo raccapricciante che gli si parò davanti gli gelò il cuore nel petto. Attorno a loro centinaia di migliaia di ossa ricoprivano il fondo di una caverna grande come una cattedrale di roccia grezza.

Un mare spumeggiante di ossa umane li circondava: ecco il segreto di Hexam Priory. Davanti ai loro occhi spalancati dal terrore il dottor Clark esaminò i macabri resti scoprendo il segreto di quella immensa tomba: erano ossa di essere umano, ma la maggior parte era deforme e contorta, come avessero subito in vita una lenta mutazione che li aveva resi, nei secoli di imprigionamento nelle viscere della montagna, sempre più simili a porci.

Porci rossi sotto la grondaia.

Generazioni di scheletri dei De la pore erano le fondamenta di Hexam Priory, la grandiosità e l’orrore erano ciò su cui la famiglia si era appoggiata per secoli, il culto a Cibele, i riti orgiasti, quel mare di ossa erano il risultato di secoli di atroci rituali di sangue; rituali che vedevano i De la pore vittime e carnefici di loro stessi; essi sacrificavano i loro stessi figli. Ecco cosa aveva fatto fuggire in preda all’orrore Walter, ecco perché il nonno aveva deciso per l’annientamento della famiglia e la fuga nelle terre d’ America.

Oltre quel macabro deserto candido i nostri notarono che la grotta era la culla di molte piccole strutture delle più antiche epoche; un circolo di menhir celtici, una struttura in legno dei primi dell’ottocento, un piccolo tempio romano sormontato da una cupola e altri piccoli templi.

Il piccolo tempio custodiva un altare insanguinato da centinaia di sacrifici sovrastato dall’affresco rappresentante la signora delle belve; Cibele, ammantata di pelli e sporca di sangue, assisteva ridente ai riti che si svolgevano ai suoi piedi dipinti come quel divino Dioniso osservava i suoi banchetti nella camera patronale diverse catene sopra di loro.

Fu in quel momento che i ratti li assalirono.

Il sergente si rese conto che le bestie altro non aspettavano se non di poterli circondare. Correndo a branchi sotto il mare di ossa le schifose creature crearono onde in quel bianco e macabro mare che si avvicinarono a loro per andare a infrangersi sui gradini di marmo del piccolo tempio, scoprendo le fameliche creature attaccarli coi loro denti aguzzi.

Puthnam e Clark si difesero con i lanciafiamme mentre Rock e Burke sparavano alle orde coi propri fucili.

I topi, folli di fame, continuavano ad arrivare ad ondate; Puthnam guardò alle sue spalle; l’affresco di Cibele, grande madre delle belve, lo guardava ridente. L’affresco si muoveva come vivo, l’orgia strisciava ai piedi della dea crudele che rideva, rideva. La furia verso quel culto innominabile e crudele e l’odio per quella creatura sogghignate lo riempirono e sferrò un pugno all’affresco tenendo stretta la targhetta di legno incisa col simbolo dei dei primigeni. La reazione fù incredibile; Cibele parve sentire il colpo sferrato dal sergente e lo guardò con odio.

Clark provò il tutto per tutto lanciando il serbatoio del lanciafiamme fra le bestie immonde che li circondavano e lo fece esplodere con una raffica di mitra incendiando i roditori in un’esplosione.

Puthnam continuò a colpire e colpire l’affresco che cominciò a sgretolarsi sotto i colpi fino a crollare in scaglie colorate.

Il dottore, intanto, utilizzò le strisce delle tende, stracciate ore prima nel salone centrale e portate con loro per ogni necessità, e le imbevette nel brandy trovato. Quando diede fuoco all’anello di tessuto che li circondava le fiamme si levarono alte atterrendo i roditori furiosi.

Quando anche l’ultima scaglia di colore venne distrutta dal sergente una scossa di terremoto mosse l’intera grotta facendo spostare di qualche centimetro l’immondo altare che rivelò un passaggio sotto di se da cui arrivava aria fresca.

Vi scesero appena in tempo, una forte scossa di terremoto fece crollare la grotta, nascondendone al mondo le empie oscenità.

Yog-sothoth!

Il tunnel era vuoto e così amplio da non riuscire a trovarne le pareti; un refolo d’aria fresca li condusse come un sentiero in quella opprimente oscurità per quelli che sembrarono diverse iarde.

Ad un tratto i loro piedi cominciarono a calpestare un manto di quello che pareva rimasugli di miniera. Ad una più attenta analisi del professore si rivelò essere un silicato simile al carbone per aspetto e friabilità, ignifugo e isolante. A pochi piedi di distanza all’acciottolato si unirono due lustrate strisce di metallo che correvano sui silicati perfettamente parallele perdendosi nel buio.

Fù in quel momento che, quasi in contemporanea, Puthnam e Clark capirono dove si trovavano e cominciarono a correre sulle traversine esortando Rock a fare lo stesso.

Una luce li accolse poco prima che il treno li raggiungesse e li sorpassasse, si gettarono agilmente sulla pensilina mettendosi in salvo e alzarono lo sguardo titubanti, già sicuri di ciò che avrebbero trovato. Sulla lucida parete mosaicata a ceramica troneggiava la scritta “London Tube”.

Non si spiegavano come fossero arrivati a Londra che stava a diverse miglia di distanza dalla contena scozzese di Humberland e i londinesi li accerchiavano con sguardo sconvolto e preoccupato.

Districandosi dalla folla risucirono a ritagliarsi un po’ di spazio in un angolo discosto dove, consultando il Necronomicon, trovarono il significato della parola che avevano sentito poco prima sotto l’altare. Yog-sothoth era il signore dei passaggi, colui che teneva aperta la porta. Questo spiegava loro cosa doveva essere successo; ma chi aveva nominato Yog-sothoth?

Trovata una cabina del telefono si fecero passare dal centralino londinese la locanda che avevano lasciato ad Humberland dove era rimasta incustodita al moto del sergente. Una musica festosa aprì la telefonata, Hexam Priory era caduta mezzora prima e i cittadini si erano radunati per festeggiare alla locanda. Il vecchio Greg promise loro di occuparsi della moto e di spedirla loro nei prossimi gironi; Clark, che non aveva dimenticato il caso e il cosa lia vesse condotti fino a li, chiese al vecchio storico londinese se le tombe dei De la pore fossero conservate nell’ Humberland o nel cimitero storico di Londra. Greg rispose che in paese nessuno aveva voluto che i corpi del nonno di Walter venissero sepolti li e che quidni, con molta probabilità, essendo una famiglia importante avrebbero trovato nella capitale la tomba di famiglia.

Fù quindi al cimitero che si diressero fermandosi a mangiare del fish and chips ad un baracchino per strada. Con un abile stratagemma il dottore riuscì a convincere il custode del cimitero a chiudere per loro i cancelli e a mantenere l’area chiusa, cosa che il giovane custode fece alacremente.

Non fù con difficoltà che trovarono la tomba dei Delapore ai margini del grande cimitero. Una colonna romanica sormontava il loculo e un’incisione in latino recitava “noi non dimentichiamo, nostra signora delle belve”. Puthnam non si fece scrupolo alcuno a deturpare al scritta blasfema con il proprio ormai fido piccone; la stirpe e i cultisti di Cibele dovevano essere dimenticati dal mondo.

Il tumulo venne aperto senza problemi con una spallata; all’interno una gran quantità di tombe faceva bella mostra di sé sui muri.

Il tenente riuscì presto a trovare la tomba del secondogenito del barone, bisnonno di Walter, che doveva essere sposato a quella terrificante Margaret Trevor di cui parlavano le ballate. Estratta l tomba dal muro e scoperchiata trovarono di fronte a loro due scheletri, un uomo ed una donna, di un’epoca indecifrabile, abbracciati l’uno all’altro. Avevano trovato la tomba di Lady Margharet Trevor e del suo sposo.

Non fù però nella tomba che trovarono indizi per il manoscritto che cercavano, ma nel loculo ora vuoto veniva aria fresca.

La sua profondità non faceva vedere il fondo e fù con coraggio che i nostri si calarono in quella fredda tomba.