Racconti umoristici

Arkham, e altri racconti. cap. IV

L’ultimo, e il più sanguinoso, capitolo della nostra storia dove il tenente William Clark, l’amico sergente Putnham e l’agente Sean trovano tutte le risposte a tutte le domande.

Quarto capitolo, l’Arkham Society.

Capitolo quattro. L’Arkham Society

Il tenente e Sean sbarrarono gli occhi.

Curwen non era mai parso l’oro come un uomo affidabile e benevolo, troppo gentile per esserlo ai loro occhi abituati a criminali e malfattori, a scoprirlo un mostro e un cultista, no, quello no.

Il libro, supposero, doveva servirgli per completare la panoplia dei propri poteri ed eliminare gli ultimi dei suoi problemi, come il reincarnarsi in un discendente col suo stesso sangue trasformandolo in un corpo di vecchio.

Fu in quel momento che giunse al sergente una lettera; alla notte di Capodanno mancavano ormai solo due giorni e dove sarebbero stati meglio accolti e festeggiati se non al Moulin Rouge dove il sergente aveva recentemente acquistato una quota, ed era li che erano stati invitati.

Nei due giorni restanti gli uomini fecero ulteriori indagini sullo scrittore nominato Lovecraft e i suoi racconti; fu con sorpresa che scoprirono il numero impressionante di scritture che il solitario di Providence aveva lasciato al mondo prima di morire, venti anni prima. Tutti i suoi scritti, dai racconti brevi ai romanzi lunghi, trattavano lo stesso tema, raccontò a Shean un professore di lettere dell’università di Parigi; l’orrore.

Lovecraft aveva egli scritto alcuni poemetti di poco valore in giovane età ma era nel racconto di questi “Grandi Antichi” che lo scrittore ritrovava completamente sé stesso e il proprio genio.

Egli, raccontò il professore, possedeva come un genio, una sorta di fantasia o di intuito, di sensibilità che gli permetteva di raccontare storie del terrore molto diverse da quelle cha avevano ossessionato gli incubi dei lettori nei secoli precedenti, Lovecraft aveva creato dal nulla un’intera panoplia di mostri inenarrabili e incomprensibili che dimoravano nel vuoto cosmico e nelle stelle e minacciavano costantemente la creatura umana con i propri orrori e le inumane crudeltà.

Mostri divini indescrivibili cui solo intuire l’esistenza poteva portare alla più ceca follia, creature che dimoravano negli spazi siderali o negli abissi più remoti della terra, razze aliene che ancora abitavano, dormienti e dimenticate, fantastiche città primitive nel gelo del deserto, servitori di culti innominabili trascinavano le proprie folli vittime al centro di blasfemi riti nelle più profonde grotte marine o sulle più impenetrabili montagne; ma erano anche in boschi mai toccati da piede umano, e nei sudici, profondi vicoli di grandi città sedotte dalla corruzione e dal male.

Ma era in una piccola cittadina del New England che lo scrittore trovava la scena per la maggior parte delle sue terrificanti storie, Arkham, l’immonda cittadina, antica più della civiltà americana, che sorgeva sul mare come una distorta e malsana gemella della tranquilla e aristocratica cittadina dove lo scrittore era nato, cresciuto e morto, Providence.

Se Sean e i suoi amici fossero tanto interessati allo scrittore a Providence stessa sorgeva l’Arkham Society, un ristretto club di gentiluomini che conoscevano bene e a fondo l’amplia panoplia di scritti del genio del terrore.

Fù anche di grande utilità il gran numero di libri dell’autore che James e William riuscirono a recuperare fra rigattieri e vecchie librerie. Fù con sorpresa, ed eccitazione, che trovarono due libri che narravano una storia che loro conoscevano bene, ma una storia che sarebbe dovuta finire in modo molto diverso; “La musica di Erich Zann”.

Ma i due gironi di tranquillità erano terminati senza che i nostri neppure se ne accorgessero, Capodanno era alle porte e il biglietto di invito per il lussurioso Moulin Rouge sfrigolava loro in tasca.

Non perderemo tempo descrivendo lo sfavillare delle luci, la bellezza e lascivia delle ballerine esotiche con cui i nostri si intrattennero, né a descrivere l’intrigo dei balli, la gioia lasciva dei vecchi e nuovi clienti del famoso teatro che trovarono un locale rinnovato con i soldi lasciati dal sergente.

La notte fu un turbine di lussuria e divertimenti sfrenati, il vino e l’assenzio irrorarono tutte le gole e i nostri fecero tutto il possibile per dimenticare; dimenticare l’orrore, dimenticare la follia, dimenticare la paura e la strada, e tutto ciò che di contorto e inumano li aveva condotti fino a li. Si persero nella musica che riempiva loro testa e cuore, nei baci delle donne e nella dolcezza dell’alcol, nei balli sfrenati, nelle luci che riempirono il cielo, nel tentativo, riuscito almeno per una sera, di riempiere quell’oscuro vuoto e buio cielo nero che ora sembrava sempre più schiacciare le loro vite sotto il peso di ciò che lo abitava.

Il mattino dopo la dolce luce azzurra dell’alba salutò il nuovo anno del 1˙953 e i nostri si risvegliarono scoprendosi non più un quartetto.

Peter Rock era sparito, aveva preso le proprie cose durante la notte e se ne era andato la mattina presto approfittando del loro sonno. Fu solo nel tardo pomeriggio che l’archeologo fece riavere proprie notizie e non era una voce amichevole quella che sentirono al telefono.

Peter non era mai stato un uomo fedele a qualche causa; era un uomo piccolo, che mirava al proprio tornaconto e guardava con occhio diverso da quello dei suoi compagni alle potenze indicibili che aveva cominciato a conoscere durante al loro avventura, occhi di cupidigia.

Era subito corso ad avvisare il proprio “padrone” delle nuove scoperte che i compagni avevano fatto su di lui portandosi via il Necronomicon e rapendo la nuova fidanzata del tenente che fece sentire la sua energica voce dal ricevitore.

Peter non avrebbe rinunciato ai diecimila dollari promessi da Curwen e incentivò in questo modo i nostri a non abbandonare la missione, ma anzi al continuarla con più solerzia di prima lasciando intuire che non avrebbe avuto problemi a depredare della vita la dolce Janet.

Le indicibili minacce che il sergente e il suo amico fecero all’archeologo poco lasciavano all’immaginazione tanto il disgusto e l’odio egli aveva provocato nei due uomini che non persero tempo, prendendo un aereo militare, sottraendo un passaggio alla vicina stazione militare americana, per New York.

Al ritorno nella grande mela i tre si divisero sguinzagliando sulle tracce del traditore tutte le forze che conoscevano.

Puthnam convinse la polizia militare a mettersi sulle tracce dell’uomo che si era impossessato, rubandolo a loro, di un’importante artefatto di natura esoterica che doveva venir consegnato nelle mani delle forze americane dopo i vari interessi che il Reich aveva dimostrato per cose di tale natura.

L’agente Sean mosse l’intero ufficio persone scomparse e la sezione investigativa del proprio dipartimento insistendo sul rapimento di una giovane signorina scozzese da poco giunta negli stati uniti, ma fu il tenente quello più toccato e reso determinato dalla faccenda.

William contattò le forze malavitose che si muovevano fra gli affari di New York, promettendo una cifra esorbitante al Don che gli assicurò aiuto per trovare codesto Peter Rock e la ragazza che aveva rapito.

Non venne risparmiato dalla chiamata alle armi neppure Niggher-man che però non poté aiutare il nuovo amico perché, a sua detta, l’archeologo si era rifugiato sotto l’ala di che non poteva essere raggiunto.

Dopo aver messo in moto tutto ciò i nostri decisero di dirigersi a Providence per percorrere fino in fondo a quel morboso sentiero e recuperare l’antico libro una volta per tutte.

Non ebbero problemi a giungere in moto alla tranquilla cittadina, né a trovare l’Arkham society (che apriva la sera ai visitatori) né a stemperare l’atmosfera con una mangiata di pesce e un giro di perlustrazione nel vecchio maniero (ora abitato da un’ignara e simpatica famiglia di piccolo borghesi) dei Curwen.

Quando la sera bussarono alla lucida porta dell’Arkham society vennero accolti da tutto il calore e la gentilezza di tre distinti signori e la loro giovane servetta che li incitarono a riposarsi, fisicamente e spiritualmente, sedendo con loro nel loro piccolo covo da gentiluomini inglesi, sorseggiare con loro il brandy della migliore qualità e conversare con loro di tutto ciò che avrebbero voluto, purché fosse interessante.

Gli uomini si presentarono come Charles W. Smith, il più vecchio del club, George Julian Hountain e il più giovane Edwin Baird distinti signori membri (e unici soci) onorari del club, nonché fondatori.

I nostri non erano certo gli uomini giusti per parlare con gentiluomini di quel calibro, editori di fama internazionale, giornalisti pluripremiati e grandi letterati, ma cercarono di dissimulare la cosa venendo presto però interrotti dalla franchezza del più vecchio dei tre vecchi signori che non aveva certo vissuto tutta la vita parlando di alti sistemi letterari e politica internazionale.

“Al vecchio Howard non sareste piaciuto” disse Charles con un sorriso di paterna tenerezza al tenente; al solitario di Providence piaceva molto parlare pomposamente, ma odiava chi lo faceva a sua volta se era per darsi un tono, vennero quindi invitati a parlare schiettamente e a non lasciarsi intimidire dai capelli bianchi e dai titoli autorevoli, se volevano parlare del compianto Howard, della sua sconfinata bibliografia o di qualunque altra cosa in cui avrebbero potuti aiutarli loro sarebbero stati ben felici di venir strappati dai loro pomposi monologhi letterari e parlare loro come amici.

Non avevano motivi per esitare oltre e per non parlare di tutta la loro movimentata avventura ai tre quindi il sergente si buttò nelle spiegazioni.

Non vi fu la reazione che si aspettavano.

I tre vivaci signori si guardarono, lasciando trasparire un’intesa dovuta alla lunga amicizia e alla condivisione di cose che, fino ad ora, nessun’altro avrebbe potuto comprendere, e li accolsero fra di loro con un tono di voce e un atteggiamento che non era di sospetto o di paura ma di comprensione e accettazione.

Finalmente qualcuno aveva portato loro delle certezze, i tre scrittori avevano vissuto per decenni di sospetti, intuizioni e presentimenti ma mai avevano avuto le prove che il mondo descritto dal criptico amico fosse reale.

Lo era, e no, non era quello che scriveva che diveniva reale, come suggeriva il tenente, Howard vedeva, intuiva, sognava tutto ciò che descriveva; egli era l’unico esponente, il solitario paladino che narrava all’umanità degli orrori che occupavano lo spazio fra le stelle, metteva in guardia l’uomo da ciò che è immondo e crudele, da creature che nulla hanno a che fare con l’umanità, le sue banali paure o i suoi miti e legende.

George spiegò che gli Antichi i cui nomi torturavano il tenente, Puthnam e Sean dall’inizio di quella storia erano da considerarsi al pari di dei per capacità e potere ma che nulla avevano a che fare con le divinità che consociamo; loro erano ben oltre che inumani, erano creature aliene cui le menti umane non potrebbero contenere, se non al prezzo di impazzire, l’orrore; chi sfiorava le loro esistenze non poteva mai più tornare umano come prima e veniva bandito dalla vita normale e dalla società che fino a poco prima era casa.

Cera un motivo se solo in pochi conoscevano l’esistenza di queste entità ultra-millenarie, chi le accettava e ne diveniva succube nascondeva la propria esistenza, chi non lo faceva finiva la sua vita a strapparsi i capelli in qualche cella di manicomio.

Essi non erano combattibili né distruggibili, chi li vedeva o li incontrava non vedeva che un riflesso di ciò che erano, come la luce delle stelle o la luce della luna, chi giurava di aver visto il caos strisciante, il capro nero dai mille cuccioli, il dio pazzo che suona la sua melodia folle al centro dell’universo o il grande Chtulhu, che attende sognando nelle profondità degli oceani, non aveva visto che un riflesso di queste creature che non abitavano il mondo ma esistevano a eoni di distanza dalla terra e rispecchiavano la loro esistenza e i loro immondi corpi deformi come la luna specchia la propria immagine in un pozzo; egli lo facevano nelle menti degli uomini.

Non erano nemmeno raggiungibili se non attraverso il piano astrale, i sogni; sogni che Howard usava per viaggiare e conoscere.

Queste spiegazioni turbarono i nostri uomini ma risposero a molte domande e in qualche maniera li tranquillizzarono.

George continuò spiegando loro che i segni con cui il sergente aveva inciso il proprio corpo erano simboli di potere magico non indifferente soprattutto per la grande stella occhiuta che portava sui palmi; essa era il “simbolo dei Grandi Antichi” la stella degli Dei Primigeni; essi proteggevano la razza umana da questo caos immondo e, probabilmente, loro o chi per loro aveva tracciato per i nostri eroi la strada che li aveva portati a salvare la vita a Zann, a conoscere la verità su Curwen e fin da loro; quella stessa entità aveva mandato loro il sogno del templio come premonizione e li aveva protetti fino a quel momento. L’altra strada, quella che li aveva portati a Hexam Priory e poi nell’immonda Crouch End era invece la strada tracciata per loro da Curwen e dai suoi padroni immondi; con tutta probabilità Curwen contava così di corrompere le loro anime e le loro menti per far di loro dei cultisti di grande potere al suo servizio, cultisti che gli avrebbero portato prima il libro e poi chissà cos’altro.

George insistette sul fatto che, probabilmente, entrambe le strade portassero allo stesso punto di arrivo, il libro. Se avessero voluto continuare la strada loro conoscevano la prossima meta che avrebbero dovuto raggiungere; una piccola cittadina di mare nominata Baia Poynt, un paesino quasi completamente abbandonato sulla costa a poche miglia di distanza. In quella cittadina erano stati preceduti da un giovane che stava molto a cuore ai tre vegliardi; un ragazzo, un brillante universitario studioso di matematica applicata, li aveva preceduti qualche giorno prima nonostante i molti consigli del club di non avventurarsi per quelle strade.

Il ragazzo non aveva sentito ragioni ed era andato a Baia Poynt ignorando ogni precauzione; il motivo era accademico, dai suoi studi aveva scoperto che a Baia Poynt era vissuta, secoli addietro ai tempi dei padri pellegrini, una vecchia, additata come strega, sfuggita alle accuse di stregoneria dalla corte di Salem in modo alquanto bizzarro; la vecchia non era fuggita sulle ali di enormi pipistrelli dal palo del rogo, era semplicemente svanita dalla propria cella, senza lasciar dietro di se aperture o scavi, ma solo pareti piene di strani calcoli matematici irrogati da simboli occulti che dovevano averle aperto, secondo il giovane matematico, qualche porta impossibile obbligando la fisica a piegarsi al proprio volere.

Il giovane Gilman Walter era intenzionato a svelare il mistero della strega vivendo nella vecchia soffitta di lei a Baia Poynt e i soci del club erano molto preoccupati, non sentendo più sue notizie da diversi giorni, che la mente del ragazzo si fosse infranta su qualcosa che non doveva essere visto.

I nostri accettarono di buon grado di andare a recuperare il giovane accademico o di porre fine alle sue sofferenze e promisero di partire la mattina dopo.

La notte non passò però tranquilla; il vecchio Charles li aveva messi in guardia sui pericoli che avrebbero corso stando a Providence, dove “certe oscure cose” erano più facili alla vista. Il club era ben difeso, i vecchi studiosi potevano non aver prove, ma avevano un’incrollabile fede che li aveva portati a creare un piccolo cavalierato, con loro tre come unici esponenti, contro le oscure forze che assediavano l’umanità e a forgiare il Simbolo degli Antichi in tre talismani d’oro puro. Ma non era difeso il capanno dove avrebbero dormito.

Conoscendo già la potenza dei propri avversari il sergente James pensò bene di incidere le proprie armi con l’alfabeto di Nug-Soth che oramai il sergente conosceva a memoria senza alcun bisogno del Necronomicon.

Il sergente tracciò i simboli degli Dei Primigeni sugli stipiti ma, durante la notte, non li difese dall’attacco di sei marinai sudici e dai denti limati come quelli di pesce, che puzzavano di acqua salmastra e procurarono loro svariati minuti di combattimento.

Gli starni uomini vennero sconfitti con le nuove armi procurate dal sergente incluso un amuleto creato dal tenente con l’alfabeto di Nug-Soth che respingeva tutto ciò che toccava.

La mattina dopo Edwin convinse lo sceriffo a liberarsi dei corpi senza fare troppe domande e diede alcune delucidazioni a Clark sulla natura dei loro assalitori definendoli Dagoniani, uomini fedeli al culto di Dagon, la divinità abissale che trasformava lentamente i propri fedeli in una copia di sé stesso, uomini pesce. Questo spiegava l’odore di salmastro e i denti limati.

Dopo esser stati calorosamente salutati ed equipaggiati i tre si diressero con la motocicletta del sergente verso Baia Poynt. La strada divenne sempre più dissestata man mano si abbandonava la civiltà e ci si insinuava fra le strette strade quasi dimenticate.

Baia Poynt si presentò ai loro occhi come una cittadina sul mare semi abbandonata, dopo aver curato un incipiente mal di denti al proprietario dell’emporio vennero a sapere da questi che tutti i giovani del paese avevano abbandonato tutto per luoghi più confortevoli e dove la civiltà era giunta con luce radio e telefono e solo i vecchi erano rimasti in attesa di morire su quelle spiagge.

Trovato riparo nella casa del nonno dell’uomo, che diede loro ospitalità, i nostri attesero pazientemente la notte, non prima aver terrorizzato i curiosi vecchietti del luogo.

La notte scese, il sergente provò a rimediare alla mancanza del Necronomicon e delle sue formule incidendo con l’alfabeto talismanico il titolo del libro desiderato sulla copertina di un vecchio libro mastro bianco. Non successe nulla e la cosa deluse molto l’uomo fino al mattino dopo quando Sean si accorse che nessun rumore di mare giungeva da fuori, la luce del sole non filtrava dalle finestre, nulla di ciò che era Baia Poynt traspirava da fuori.

Il tenente Clark si svegliò afflitto da un orribile incubo che lo aveva assediato tutta la notte, la stanza dove erano si rimpiccioliva e le pareti li schiacciavano fino a sopprimerli e quando guardò fuori dalla finestra mostratagli da uno sconvolto Sean la sensazione pesante che aveva in petto peggiorò. Fuori non c’era più Baia Poynt; le simpatiche anche se decadenti casine di mare non esistevano più; al loro posto costruzioni che parevano costruite da qualcosa che non aveva mai visto un essere umano avevano preso i loro posto. Angoli di tetti troppo spioventi e muri storti fino all‘impossibilità li circondavano, finestre in posizioni assurde, quasi nessuna porta utilizzabile, muri di mattoni e di legno gonfi come pance e infissi inclinati fino a sfiorare il pavimento facevano bella mostra di sé stessi agli occhi attoniti che capirono subito di trovarsi ormai nella malata Arkham.

Un libro nero e dall’aspetto malsano stava sul tavolo del salotto dove il sergente aveva poggiato il libro mastro la sera prima.

Sulla copertina dall’aspetto appiccicoso la scritta “Necronomicon” svettava in lettere rosse. Il sergente aveva richiamato fra le sue mani l’edizione tradotta dall’occultista inglese di epoca elisabettiana John Dee. Le iscrizioni dell’arabo pazzo specchiate in inglese riempivano il libro accompagnate da una lunga sequela di strane e piccolissime lettere che dovevano essere una qualche complicato linguaggio cifrato che i nostri non seppero tradurre. Acqueforti raccapriccianti degli Antichi ne coprivano le pagine di un cuoio untuoso e giallo.

Aggirandosi fra le case marcescenti e contorte trovarono due stringhe di scarpe che li condussero fino ad una piazza dove una specie di fontana eleggeva al cielo uggioso una statua di un nero assoluto, un uomo vestito da un lungo mantello, il cranio calvo e le mani a nascondere il volto chiuse in un segno che riconobbero come il Segno di VOOR, il simbolo degli Antichi.

La statua rappresentava Nyarlatotep, il faraone blasfemo.

Il tempo di consultarsi fra di loro e Sean si rigirò vero la statua che aveva eretto un braccio in una direzione mentre si chiedevano come trovare e raggiungere il povero matematico.

Una casetta non meno fatiscente delle altre veniva indicata dalla lunga mano della statua.

Entrandovi gli uomini trovarono strana la geometria dell’abitazione, notarono che tutti gli angoli cambiavano da concavi a convessi se spostavano la testa anche di pochi centimetri; i simboli geometrici che ornavano il mobilio contorto davano lo stesso effetto di assurda tridimensionalità impossibile e ricordarono loro le geometrie del templio del loro sogno e le intricate decorazioni del palazzo di Curwen.

Uno scalpicciare veloce e scomposto giù dalla ripida scala che conduceva al piano superiore.

Il tempo di estrarre le armi e un giovane pallido ed emaciato, con i grandi occhi febbrili pieni di terrore comparve davanti a loro; gli abiti, una volta ordinati e di gusto, ora erano stracciati e sporchi. Il ragazzo crollò fra le loro braccia; la febbre alta lo tormentava ormai da giorni e non ricordava più da quanto fosse lì, a mala pena ricordava il proprio nome, ma ricordava bene il motivo per cui era lì; la strega e il suo servitore lo tormentavano da quando era giunto a baia Poynt, prima che questa divenisse l’insana Arkham.

O meglio, spiegò Walter Gilman, Arkham aveva cambiato nome in Baia Poynt quasi un secolo prima.

Il dottor Clark si predispose per fare un’iniezione al giovane per far scendere la febbre e nutrire il ragazzo mentre James si premunì di segnare sul collo del ragazzo il Simbolo degli Antichi sigillando la sua mente agli orrori di Arkham.

Subito Gilman si sentì meglio, la febbre si abbassò quasi istantaneamente e le voci insistenti che attanagliavano la sua mente lo abbandonarono.

Questi spiegò ai suoi salvatori che da quando la febbre si era alzata le cose attorno a lui erano cominciate a divenire strane ed inquietanti, Baia Poynt era sparita una notte per fare spazio alla raccapricciante Arkham da cui non aveva trovato uscita, forse l’unica uscita era davvero nei rituali e nei misticismi della strega, i calcoli del matematico non si erano limitati alla carta ma riempivano tutte le pareti della piccola soffitta. Si commosse profondamente quando Clark gli riferì che erano venuti lì mandati dall’ Arkham society per riportarlo a casa; allora non si erano dimenticati di lui, non era solo.

Gilman spiegò loro che la strega e il suo aiutante lo stavano usando come sacrificio ai loro pagani dei e non lo lasciavano uscire.

Provato che in effetti di uscite non ve ne erano e che la magia di Arkham era più forte della loro i tre si impegnarono per obbligare la strega a venire da loro; Keziaha era il suo nome e Brown Jenkins il raccapricciante aiutante che al seguiva ovunque; un ratto, lo descrisse Gilman, un disgustoso ratto abnorme con… non riuscì a terminare la descrizione, interrotto dal brivido della paura. Sean, ancora turbato dalla fatidica notte di Hexam dall’apparizione dei temibili roditori provò un brivido gelido di disgusto.

Clark obbligò la strega a manifestarsi tracciando sul pavimento il suo nome e l’obbligo a mostrarsi nell’alfabeto di Nug-Soth.

Subito le luci svanirono dalla stanza; una voce li irrise e una figura emaciata e vecchia comparì dal soffitto tentando di brancare il tenente.

Brown Jenkins non attese oltre al manifestarsi e attaccare Sean che, con orrore scoprì quali disgustose caratteristiche Gilman non era riuscito a descrivergli; Brown Jenkins era un sudicio ratto di quasi due spanne dalla testa alla coda e ora mostrava, alla fioca luce di una candela, la sua distorta faccia umana fra gli irsuti peli da roditore.

Piccolissime mani nodose afferravano i pantaloni di Sean che se lo scrollò di dosso con un grido di ribrezzo. La piccola faccia umana strillò cambiando bersaglio e fiondandosi sotto la camicia del tenente che sentì un dolore lancinante al petto.

Keziaha ghermì il tenente per un braccio ma venne strappata dal soffitto dall’amico con una catenata della motocicletta squarciandone il petto ossuto.

Evidentemente avevano fatto bene a potenziare le proprie armi prima di venire in quel luogo da incubo che era Arkham, o non ne sarebbero altrimenti usciti vivi.

L’ignobile donna tornò all’attacco ghermendo l’altro braccio del tenente squarciandone la carne con unghie e denti; erano fortunati che il sergente avesse precedentemente segnato i loro colli con il Simbolo degli Antichi chissà quali orrori la strega avrebbe fatto germogliare nelle loro menti.

La battaglia finì con l’ignobile donna squarciata dai colpi di mitra di Clark fin a estirparne il nero cuore e con l’uccisione di Brown Jenkins che venne ripetutamente schiacciato dalle mani dell’agente Sean a terra finché non rimase dell’orrenda creatura solo sangue e poltiglia.

Il tremante Gilman venne convinto ad uscire dal proprio nascondiglio quando si resero conto che gli studi del ragazzo erano esatti; infatti una delle aperture della strega era comparsa, nera e incomprensibile, nell’angolo più lontano della soffitta e si presentava come un buco oscuro e intangibile nel legno.

Gli uomini si arrampicarono verso quella strana uscita, il tenente si girò un attimo alle proprie spalle sentendo un rumore di ossicine spezzate e vide Niggher-man che divorava i resti sanguinanti di Brown Jenkins sorridendogli.

Il passaggio non era buio come ci si poteva immaginare, era anzi colorato, di mille colori e luci che sarebbero stati poi difficilmente descritti; il sopra e il sotto smisero di essere distinguibili e gli uomini procedettero per un tempo indefinito fino a sentire di nuovo i piedi poggiare su qualcosa di tangibile, un pavimento in una grande stanza poco illuminata; alle pareti, illuminati da faretti dalla luce gialla, quadri riempivano le pareti.

I quadri rappresentavano, in ogni dettaglio e dipinti da una mano incredibilmente geniale, diversi panorami.

Hexam Priory dava bella mostra di sé su di uno sfondo boschivo che ritraeva un uomo, incredibilmente somigliante a Walter De la poer mentre pascolava porci rossi.

Un uomo suonava istericamente la viola in una buia soffitta di Parigi, dietro una pesante tenda si intravedeva una finestra aperta che dava su di un buio irreale abitata da qualcosa che straziava la mente del vecchio musicista.

Nel sottopasso buio di Crouch End una grossa figura nera dall’unico occhio verde veleno scrutava lo spettatore con intenzioni tutt’altro che benigne, sotto un cielo arancione.

I quadri si susseguivano in una raccapricciante galleria di mostri troppo realistici che avevano appena sfiorato e che ora li osservavano immoti dalle tele.

Sul fondo della sala un ritratto a figura intera di un gentiluomo dall’aria distinta e crudele nel suo studio dalle decorazioni di un’insalubre art déco attirava la loro attenzione; accanto al gentiluomo, su di un leggio decorato con le insolite figure geometriche un libro antico quanto la civiltà stessa pareva così vicino da poterlo toccare.

Il libro di Dzian.

Accanto al suo estimatore, Lord Joseph Curwen.

Lo avevano trovato? Non poteva essere solo un dipinto, poteva essere davvero li, davanti a loro, a distanza di un passo, proprio accanto all’uomo che su tutta la terra più lo bramava.

Profumo di anice.

Si girarono e di fronte ai loro sbigottiti occhi un gigantesco quadro orizzontale riempiva l’intera parete dietro di loro.

Un templio, dal basso ingresso rettangolare si apriva sul fianco lavorato di una montagna; di fronte centinaia di uomini e donne sotto il sole rosso del deserto inginocchiati a pregarlo non osavano entrarvi; nelle profonde ombre del templio complicati arabeschi d’oro ne decoravano le pareti, sul fondo un’apertura dava su di un panorama completamente diverso; un cielo ceruleo di pioggia e lunghi porticati rosso lacca, una piccola donna orientale sotto di una pagoda indicava un’apertura al fondo del proprio giardino fatto di piccoli sassi bianchi; il buio, un buio fresco ed accoliente nascondeva i loro occhi qualcosa che ancora li chiamava.

Il templio del sogno.

Come un sol uomo il tenente, il suo vecchio amico e il giovane Sean si guardarono per un istante prima di agire tutti nello stesso istante.

James tracciò il sigillo di Yog-shothot sulla tela mantenendo con l’altra mano il Segno di KISH e corse a fare lo stesso sul quadro in cui era custodito il libro; William si gettò velocemente sul libro nell’istante esatto in cui l’amico terminava l’incantesimo, un istante prima che Curwen abbassasse gli occhi malevoli su di lui e gli impedisse il furto. Sean scagliò Gilman nel deserto del templio mettendo al sicuro lui e la sua mente da quello che avrebbe potuto vedere e James sferrò un pugno con il Simbolo degli Antichi al volto di Curwen per distrarlo da William.

Il piano funzionò, Clark prese il libro e si mise a correre nella direzione opposta della sala dove il templio lo aspettava con le sue frescure.

“Io non posso entrare”

Profumo di anice

“Io non posso entrare”

Qualcuno li aveva mostrato il templio del sogno, qualcuno li aveva benevolmente osservati per tutto quel tempo, qualcuno ora attendeva il libro di Dzian per tenerlo al sicuro nei secoli da mani come quelle di Joseph Curwen.

Mani artigliate, tentacoli e ali membranose uscirono dai quadri lanciandosi a chiudere la via al tenente; Sean intercettò le creature cominciando a sparare su tutto ciò che non pareva umano salvando la corsa dell’amico. Altre creature uscirono dalle tele; una musica di violoncello riempì l’aria sovrastando strepiti inumani e altri orridi suoni; Eric Zann suonava, suonava come dovesse essere l’ultimo concerto della sua vita.

Due mani artigliate e nere ghermirono una delle creature che cercò di lanciarsi su Clark; “ci rivediamo doc”.

William riconobbe con un gesto di benvenuto e di gratitudine Niggher-man.

Il tenente correva.

Il sergente infranse le dita della mano contro la sottile tela del quadro, sotto il guanto poté sentire le nocche esplodere con uno scoppio; Curwen aveva alzato una mano in un simbolo e fermato il colpo ghignando malefico.

William raggiunse il templio, ne scavalcò la cornice con un sol balzo e si ritrovò nel deserto giallo che ricordava, le genti attorno a lui inveirono con alte grida ma l’uomo proseguì la sua corsa all’interno del templio, oltre il vestibolo, oltre i tendaggi rossi e le ornamentazioni geometriche, oltre la fenditura fino al lungo cortile di sassi bianchi.

Solo lì fermò i suoi passi, dinnanzi alla vecchia cinese che gli sorrideva.

“Egli è grande, ma anche tu lo sei”

“ero destinato a venire qui; solo io sono andato oltre il buio del templio, era destino” rispose il tenente con un sorriso rassegnato allungando all’anziana sacerdotessa il libro.

“non è a me che devi consegnarlo” disse lei alzando una mano

“ma a Loro”

Indicando il buio al fondo del giardino dove i porticati rossi si perdevano.

La lotta continuava frenetica; una creatura senza volto, con un fusto oblungo come corpo e tentacoli che terminavano con piedi da stella marina assediò Sean attorniato da una creatura umanoide coperto di squame e branchie dai grossi occhi da rana e piccoli denti appuntiti e un mostro dalla forma di pterodattilo scheletrico con la pelle cuoiosa nera come il catrame.

James, tenendosi la mano rotta, affondò l’altra mano in tasca dove la piccola pietra magica sfrigolava spandendo il suo profumo e la scagliò sulla faccia ghignante di Curwen, l’effetto fu devastante; la pelle si staccò dal cranio e cominciò a squagliarsi come cera provocando le alte grida di dolore del vecchio.

Sean si difese dalle creature da incubo rompendo davanti a loro la piastrina col Segno degli Dei Primigeni regalatagli dal sergente; un lampo azzurro verde esplose per la stanza scagliando le creature lontano dal giovane e ferendole gravemente.

Sotto gli occhi di Puthnam una seconda figura comparse nel quadro, un uomo che lui conosceva bene, Peter Rock si chinò sul corpo tremante del proprio padrone nel tentativo di salvarlo, ma Curwen allungò una mano incartapecorita ghermendo il volto dell’archeologo; quello che accadde sotto gli occhi di James gli fu subito chiaro, Curwen prese il corpo di Peter passandogli quello morente; subito il volto di Curwen divenne quello dell’archeologo che si squagliò fra gli strilli dell’uomo i il sangue che si riversava sul pavimento come cera bollente lasciando intravedere il bianco del teschio portando l’uomo ad una dolorosa morte; il volto di Peter, sano e intatto divenne quello di Curwen che, con un ghigno di vittoria fece per afferrare al collo il sergente; ma l’uomo fù più veloce

Vai, dì agli Spartani,
o viandante,
che qui noi giacciamo”

Dell’’alfabeto di Nug-Soth non si conosceva nessun fonetismo, le lettere potevano essere solo scritte, ma non pronunciate, ma non per il sergente Puthnam.

La scritta del proprio reggimento si illuminò di una luce irreale e sfrigolò come cosparsa di polvere da sparo, Curwen venne spinto in ginocchio dalla forza stessa delle parole e l’eroe ne approfittò per varcare la soglia del quadro e sparare all’uomo ormai piccolo e incartapecorito ai suoi pedi

“saresti potuto essere grande, saresti potuto essere magnifico!”

Gli gridava in faccia Curwen, ormai solo un’ombra dell’uomo potente che era fino a poco prima

“se solo tu avessi accettato il potere che ti davo, chissà quale immensità avresti sprigionato”

Ma al sergente non interessava il potere blasfemo di Curwen e delle sue Divinità crudeli, egli rivoleva solo il suo amico.

Josep Curwen vide così la sua fine sotto i colpi di pistola del sergente.

Sean vide uccisi i suoi assalitori dagli artigli di Niggher-man al suo fianco e dall’aiuto di James corso a salvarlo; Zann ruppe addirittura la punta della viola dentro il torace della creatura semi preistorica prima che ogni cosa svanisse, lasciando in terra solo il tridente con cui l’uomo pesce li aveva assaliti.

Sia il tenente che il matematico erano scomparsi dalla tela del templio e un quadro raffigurante l’oscura e marcescente Arkham attirò l’attenzione di James.

In una piccola piazza si poteva vedere l’alta statua di Nyarlatothep osservarli.

“sono venuto a contrattare” sussurrò alla nera figura.

Alle sue spalle un’ombra troppo lata per essere quella di un uomo troneggiava sopra di lui.

Nyarlatothep aveva il viso nero come i suoi abiti, di un nero assoluto, la testa calva non rifletteva nessuna luce e la voce era profonda e suadente.

“non posso ridarti il tuo amico James, ne posso darti una chiave che non possiedo, se quella che tu già possiedi non ha funzionato vuol dire che dall’altra parte non desiderano aprirti; ma posso dirti questo, fidati del tuo amico, non puoi compiere tu tutte le scelte”

le parole del Dio crearono un grumo duro nel petto di James, controvoglia si diresse verso l’uscita della sala indicatagli dal Dio portandosi dietro lo stremato Sean.

Sula porta di ingresso troneggiava la scritta “galleria Pichman” e si trovavano a New York.

Presero un taxi e si diressero al palazzo di Curwen che trovarono assediato da polizia, dalla malavita newyorkese e dall’esercito.

Evidentemente tutte le ricerche degli uomini da loro mossi alla ricerca di Peater Rock e del suo ostaggio avevano condotto tutte le forze a quel grattacielo e ora ognuno di loro si gridava addosso in un caos degno di Babele; giornalisti continuavano ad arrivare da ogni dove accecando la scena con i loro flash.

Ma fù una figura ben conosciuta che fece loro perdere ogni interesse per il caos che avevano scatenato: in un angolo, ad osservali con un sorriso, un grosso gatto nero e malconcio sedutogli su di una spalla, stava il tenente William Clark.

Il buio oltre il templio indicatogli dalla sacerdotessa era assoluto ma gli regalava la stessa sensazione provata nel sogno; pace e rassicurazione, come nel ventre materno. Il tenente aveva percorso quel buio sentiero fino alla fine dove un colore indefinibile copriva tutto davanti a se, la stella occhiuta degli dei Primigeni lo osservava benevola.

William aveva consegnato loro il libro e atteso di morire ma la stella gli aveva parlato:

“perché credi che ora ci sia la morte per te William Clark? Davvero credi che ti avessimo protetto per tutto questo tempo per ricompensarti con la morte? Vi sono due strade che puoi scegliere; la prima è tornare indietro, dai tuoi amici. La tua vita non sarà più la stessa dopo quello che hai visto e combattuto, non sono cose che si possono dimenticare e comprendiamo che forse vorresti solo la pace, la pace che ti offriamo con l’altra via, una pace eterna dove nulla di male potrà più toccarti, cosa scegli William Clark?”

Il tenente Clark rispose con un sorriso umile e gentile

“Bhè… forse se continuassi a vivere potrei continuare a servirvi”

Una mano di donna uscì dalla stella, la mano di Jeane.

torna da me”

Era così che si era ritrovato nell’appartamento; Nigger-man dormicchiava sulla sua poltrona preferita e si erano subito diretti li.

Passarono inosservati dalla polizia all’interno dell’edificio; James si diresse prontamente nell’ufficio vuoto di Curwen; i corpi dell’alchimista e dell’archeologo stavano prostrati a terra con atroci smorfie di dolore, morti sul colpo da un attacco di cuore.

Sulla scrivania James trovò i loro tre assegni già compilati e, come era logico, intascò la somma.

William e Sean si addentrarono negli scantinati del grattacielo dove vennero accolti, una volta aperta una piccola porta accanto al locale caldaie, da una energica sediata di Janet che era ben pronta a difendersi.

I due poterono riabbracciarsi e Janet venne portata in salvo.

Decisero subito di non fermarsi nemmeno un minuto a New York; Sean doveva andarsi a sposare; il pensiero della dolce Mariè non lo aveva lasciato per un istante per tutto quel tempo e aveva la ferma intenzione di chiedere la sua mano seduta stante.

Il suo desiderio venne esaudito in tutto; Mariè accettò con gioia la proposta e lo sposalizio si tenne in un bel giorno di sole.

Niggher-man rimase fedele al tenente promettendo di vegliare su di lui e sui futuri figli abbandonando per sempre gli antichi padroni e James propose agli amici una nuova vita.

Non potevano tornare alle loro vecchie vita a New York, questo era loro chiaro, quindi perché non cercare una vita di avventure nel tropicale Sudamerica? Li sicuramente molti orrori dovevano essere sconfitti e di certo le voci che parlavano di tanti nazisti fedeli al Reich andati a cercare una nuova vita non potevano essere tutte false.

Si concluse così l’avventura del tenente William Clark e dei suoi amici; il giovane matematico Gilman si scoprì essere riapparso magicamente nel salotto dell’Arkam society dove era stato accolto come un figlio dai tra cavalieri di Providence e i nostri, non paghi di avventure, poterono ricominciare una nuova vita piena di avventure dall’altro capo del mondo.

Altri orrori vennero sconfitti e nessuno sembrò più poter fermare il quartetto dalle vie della gloria. Bellezza e luce rilucevano dalle fronde equatoriali che si aprivano al loro passaggio armati di machete e incrollabile volontà; mentre un gatto malandato e nero apriva loro la strada richiamandoli con i suoi stridi miagolii.

E a distanza di infiniti incommensurabili, distante dalla verde luce benevola della stella occhiuta chiamata Betleguise che vegliava sul destino degli uomini, oltre la porta del Sonno più Profondo e il Bosco Incantato e la terra dei giardini del mare cereneriano, e le propaggini crepuscolari di Inquanok, lo strisciante caos Nyarlathotep smise di osservare ed entrò meditando nel castello d’onice in cima all’oscura Kadath, nel deserto freddo, e se la prese insolentemente con i miti dei della terra che aveva bruscamente strappato ai loro profumati ozi nella meravigliosa città del tramonto.

 

Fine